LUIGI MOZZILLO – DON RIBOLDI, UNA STORIA DI TESTIMONIANZA NELLA CHIESA LOCALE

DATA DI PUBBLICAZIONE:

Pietro Perone, Don Riboldi 1923-2023. Il coraggio tradito. San Paolo, Cinisello Balsamo 2022, Pref. di Mons. Antonio di Donna, vescovo di Acerra, pp. 223.

Difficile trovare la giusta definizione per il libro su don Riboldi del giornalista scrittore de Il Mattino Pietro Perone: non è una biografia del nostro don Antonio, né un testo di apologetica religiosa, né storia paesana o pastorale di quel di Acerra e del suo vescovo. Neppure diario di un giornalista che quella vicende le ha vissute dal di dentro quale giovane attivista: vedremo che è lui ad aprire il discorso dal palco durante La marcia delle marcie. Neppure semplice cronaca del cuore, di ciò che poteva essere ed è stato solo in parte, perciò, forse: epopea religiosa e politica insieme.

Alla definizione di epopea: Narrazione poetica di gesta eroiche, spesso leggendarie, dovrebbero, però, scomparire alcuni termini, come poetica e leggendarie ed essere ridefinito il termine eroiche quale specificazione di gesta.  Ne tento una riformulazione: narrazione storica di un popolo giovane in cammino da aggiungere, con la guida di un vescovo. Il motto scelto da don Riboldi per lo stemma vescovile, sarà: Aprirò una strada nel deserto, citazione del profeta Isaia. Un’epopea moderna che ha avuto come protagonista parte del nostro territorio campano e che come i poemi classici ha un esito drammatico, annunciato già nel titolo: Il coraggio tradito.

Il libro è introdotto dalla Prefazione di mons. Antonio Di Donna, attuale vescovo di Acerra e presidente della Conferenza Episcopale Campana.  Proprio mons. Di Donna e Pietro Perone sono stati tra i relatori di un recente Convegno organizzato dalla diocesi di Aversa e relativo alla memoria dei quarant’anni del documento della Conferenza Episcopale Campana Per amore del mio popolo. Redatto in buona parte da don Riboldi, con la collaborazione di mons. Guerino Grimaldi, vescovo di Nola, nel 1982 e fatto proprio dalla Conferenza, è il documento che nove anni dopo, nel 1991 ispirerà don Peppe Diana e i preti della forania di Casal di Principe nel loro manifesto anticamorra. Preludio in qualche modo della futura uccisione di don Peppe. Prima ancora preludio della scesa in campo di don Riboldi al fianco del giovani campani.

Si è detto, non è una biografia: solo il secondo capitolo, L’uomo della verità, su quattordici, contiene in senso stretto dei cenni biografici. Originario della Brianza, prete rosminiano, per qualche anno in una parrocchia dell’ordine a Montecopatri nei pressi di Frascati, prima di arrivare parroco in Belice nel ’58.  Dieci anni dopo il terremoto in Sicilia, i ragazzi della sua parrocchia dal Presidente del Consiglio, Aldo Moro e al Quirinale da Giovanni Leone prima di arrivare in udienza privata da Paolo VI che esprime al prete solidarietà a nome di tutta la Chiesa per ciò che sta facendo in Sicilia. Il 25 gennaio 1978 nominato vescovo di Acerra, qualcuno dice per allontanarlo dalla Sicilia, lui da buon rosminiano dichiara, obbedisco per vocazione.  E precisa «La Chiesa, chiamandomi alla guida di una diocesi altrettanto terremotata, in sostanza non ha fatto altro che approvare il mio apostolato e mi ha dato una delega in bianco».  L’11 marzo a Santa Ninfa è il cardinale Pappalardo a conferirgli la mitra episcopale alla presenza di altri vescovi tra cui mons. Luigi Bettazzi. Agli inizi di aprile, il suo ingresso ad Acerra dove svolgerà il suo ministero pastorale fino al 1999.

La delega in bianco, don Antonio è subito pronto a riempirla di fatti e parole. Al primo capitolo, Lo scenario, c’è il prologo di tutta l’epopea raccontata: società civile, o per meglio dire politica, e chiesa cattolica negli anni ottanta. 284 delitti  in dodici mesi, tutti ai piedi del Vesuvio. Si dice: «Fino a che si uccidono tra loro… ». La Dc atavica padrona della sfera politica della terra meridionale, tratta per la liberazione di Ciro Cirillo, ciò che non era stato possibile per Aldo Moro, diventa evento per una “terza fila” del partito. Per l’occasione lo stesso Cutolo citerà più volte in tribunale uomini dei servizi segreti, come Francesco Pazienza, quale persona vicina all’onorevole Flaminio Piccoli.  L’ ’82, anno del trionfo italiano ai mondiali, è anche l’anno dei soldati italiani spediti in Libano, della guerra di mafia tra i corleonesi in Sicilia e della faida tra la N.C.O. di Cutolo e la Nuova famiglia. Nell’ ’80 ad Ottaviano era stato ucciso un consigliere comunale del PCI, Mimmo Beneventano, apice di altre uccisioni e intimidazioni armate. Pochi i segnali di attenzione alla situazione: nel documento finale di un convegno tenuto a Nocera nell’ ’80 dai sindacati per la prima volta compare un’embrionale chiamata alla lotta contro la mafia in Campania. Nasce l’Osservatorio sulla camorra con la guida dall’81 del sociologo Amato Lamberti. Anche nella Chiesa qualcosa inizia a muoversi: a Maiori il 25 e 26 maggio, un seminario promosso dalla Caritas e dalla Facoltà Teologica Meridionale dove «Il documento finale è un appello alla mobilitazione». 

La Chiesa? Oltre e aldi là del Convegno della Conferenza Episcopale Campana e il documento “Per amore del mio popolo” già visti: l’inchino al padrino del santo patrono la fa da padrone durante le processioni religiose. I Fujenti, la cui presenza va ben oltre il territorio della diocesi di Acerra, sono l’apoteosi di questo rapporto incestuoso tra fede e camorra.   Feste patronali che, in alcuni paesi, sono eventi in cui killer, trafficanti di eroina ed estorsori stilano il programma dei festeggiamenti.

L’inizio dell’epopea: oltre la grave situazione del territorio, sull’eco della mobilitazione dei giovani siciliani quale conseguenza dell’assassinio del generale Dalla Chiesa e di altri episodi mafiosi e di terrorismo, nascono delle assemblee studentesche nel napoletano.  A Napoli, si conclude con un documento da consegnare ai giornali, ad Acerra gli studenti trovano la loro guida, un vescovo che si fa chiamare don, lo hanno invitato a una loro assemblea.  Per la prima volta si propone una mobilitazione anticamorra. L’autore che ne fu tra i protagonisti dona spiragli sconosciuti: il provveditore agli Studi che opera un vano tentativo di bloccare l’iniziativa sul nascere. Preside, del Liceo di Pomigliano d’Arco e un allievo, individuato come uno degli organizzatori (lo stesso Perone?) in una Fiesta sport alla volta di Napoli, non cedono a un tentativo di richiamo all’ordine che indizi dicono giunto da Roma.

La marcia si farà. Il 12 novembre dell’82, a Ottaviano ci sarà la prima pubblica mobilitazione nazionale contro la camorra: qualcuno parla di cinquemila partecipanti, «Sono invece circa un migliaio, gli studenti, ma abbastanza, oltre le previsioni» (p. 57). Don Riboldi insieme ai pochi politici e sindacalisti è in testa al corteo. La descrizione della marcia va nei particolari di chi vi ha partecipato col cuore pieno di speranza. Assemblea nel Liceo cittadino, si decide di ritornare a Ottaviano prima del prossimo Natale. Il Mattino e L’Unità il giorno dopo escono con articoli che sono vicini agli studenti e al movimento che sta nascendo. A ruota seguono una sfilza di manifestazioni il 24 novembre a Torre del Greco e Afragola, dopo che il  14 una delegazione di giovani è stata a Cosenza per la prima manifestazione contro la ‘ndrangheta. Il 27 tocca a Castellammare, il 10 dicembre la marcia  Afragola-Casoria e un corteo a Giugliano. La marcia viene descritta dall’autore come l’episodio di una vera e propria epopea: per comizio finale il cinema destinato non poteva contenere tutti i manifestanti, quindici-ventimila, e fu scelta la piazza sulla quale affacciava il balcone del comune dove i manifestanti trovano posizionati i notabili democristiani, i giovani promotori sono già riusciti a evitare la loro ingerenza alla partenza, con la presenza di don Riboldi, di marciare davanti al corteo, dopo una trattativa questi scendono anche dal balcone. Il 15 dicembre ad aprire il corteo di Pagani ci sono i familiari di due vittime della camorra: il sindaco Dc Marcello Torre e il sindacalista Antonio Esposito Ferraioli.       

Il 17 dicembre si torna a Ottaviano per la “marcia delle marce” insieme a don Riboldi c’è il vescovo di Nola Costanzo, ci sono Antonio Bassolino e Luciano Lama, in campo questa volta anche gli operai del napoletano. Mancano i gonfaloni dei comuni, che si era cercato di coinvolgere, tranne quelli di Sant’Anastasia e Pomiglino, gli altri hanno deciso di non esserci. Il corteo parte: «A metà strada una macchia di grembiulini bianchi e blu attende il corteo: una scolaresca elementare tributa un grade applauso ai manifestanti, attentamente scandito dalla maestra. Un attimo di commozione. Lama risponde all’applauso; i due vescovi alzano istintivamente la mano benedicente», annota Antonio Polito su L’Unità il giorno dopo.   Lama sottolinea che è la prima volta che  su un palco si trovano due vescovi e un sindacalista, è Pietro Perone, l’autore, a prendere per primo la parola. E la cronaca diventa ancora epopea, la natura si unisce al mondo degli uomini: «Una delle tre colombe bianche lanciate dal palco all’arrivo del corteo, come simbolo di pace, si appollaia sulla grande scritta bianca “No alla camorra” che fa da scenografia. Resterà tutto il tempo del comizio e don Riboldi non mancherà di farlo notare: “anche gli uccelli sono dalla nostra parte. Per me – dice – questa è una data storica, questo è il nostro venticinque aprile. Qui da noi il fascismo si chiama camorra. E questa è la nostra guerra di liberazione”. Chiede aiuto al sindacato per sostenere l’organizzazione e dare continuità al movimento. Scambia il segno della pace con Lama, come in una messa. Parla alla gente che intanto è affacciata ai balconi che danno sulla piazza e cita Martin Luther King: “Alla libertà non ci arrivano gli eroi; o ci arriviamo tutti insieme o nessuno”» (78). L’onda continua, il 18 dicembre è la volta di Salerno, il 22 sono i ragazzi di Avellino a scendere in campo.

Eco di ciò che sta accadendo anche nel messaggio di Natale del cardinale di Napoli Corrado Ursi: «Ascoltate i gemiti delle vostre vittime, le grida di esecrazione dei giovani che riempiono le nostre strade per manifestare il loro sdegno, ma anche esprimere il loro appello alla vostra conversione» (83). Il movimento diventa nazionale. Siamo a Napoli: «Cinque treni speciali, trecento pullman, qualche centinaio di posti prenotati sulle navi in partenza dalla Sicilia, un volo dalla Sardegna: alla presentazione dell’evento, l’8 febbraio al Circolo della stampa, nella Villa Comunale di Napoli c’è anche don Riboldi» (89). La paura di un fallimento della chiamata alle armi nazionale scompare solo quando: «sulla piazza della stazione centrale, sferzata da un vento gelido misto a pioggia, si scorgono i primi studenti. Al “ciao”, noti subito che non hanno un’inflessione napoletana. [… ] Si sovrappongono i dialetti, si confondano gli accenti, spicca il siciliano, ma anche i calabresi si fanno sentire. Verso le nove, quando cominciano ad affluire le prime scuole di Napoli, piazza Mancini ha già i colori di migliaia di giacche a vento e di marsupi» (92). Il corteo parte lungo il rettifilo, qui è da rimandare alla lettura diretta del libro. Tanti gli interventi dal palco, il sindaco di Scandicci e una collega siciliana, poi tocca ai sindacati, ai commercianti, agli studenti,  don Riboldi che esordisce leggendo il telegramma che gli ha inviato il presidente della Repubblica, Sandro Pertini. In un testo scritto insieme a Domenico Del Rio pubblicato nel 1990, il vescovo di Acerra ricorderà: «Avere davanti centomila giovani era impressionante. Cominciai apostrofando i camorristi: “Signori della camorra” dissi “certamente voi siete qui e ci guardate. Forse ridete di noi, pensando che tutto ciò che facciamo non serve a niente, non cambia niente. Signori della camorra, ma se voi pensate che siamo qui a prendervi in considerazione, vi sbagliate. Noi siamo venuti per parlare di Napoli. Noi siamo Napoli. Voi siete la schifezza che disonora Napoli”» (96).  L’eco della piazza ripete le ultime parole del vescovo.

Qualcosa si smuove anche nei palazzi. Convegno delle toghe il giorno dopo: “La camorra, risposta delle istituzioni”, vi sono presenze e linguaggio nuovi rispetto al passato. Ondata di arresti in Campania, Sicilia ma anche a Roma. Le parole di Enrico Berlinguer nella sua relazione al XVI congresso nazionale del Pci, il 2 marzo a Milano, riprendono ciò che sta accadendo nel  meridione: « […] La mafia, la camorra, la droga, alimentate da un perverso meccanismo, prima finanziario e poi di potere, sono una piovra contro cui vittoriosamente può combattere un movimento di popolo che dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla Campania deve estendersi in tutto il territorio nazionale. L’avanzata e i successi di una così vasta e nuova mobilitazione popolare, e il costituirsi di un solido ordito di organizzazioni democratiche, possono fare oggi quello che non si è riuscito a fare fino a ieri, non solo nel Sud e per il Sud d’Italia, ma per il risanamento e la salvezza dell’intero paese». Ai lavori del congresso assistono Ciriaco De Mita, che non interverrà, e Bettino Craxi che tesse l’ordito di un nuovo dialogo a sinistra.  Berlinguer chiede di incontrare i ragazzi del movimento; l’incontro è fissato in via delle Botteghe Oscure numero 4.  Anche questo incontro rientra appieno nell’epopea giovanile dell’epoca narrata da Perone che,  ha citato già in precedenza Isaia Sales che metteva in guardia Bassolino dal volere incapsulare il movimento all’interno del partito,  ora uno dei giovani partiti dal Sud chiede a Berlinguer se lui è sicuro che nelle liste comuniste non ci siano personaggi vicino alle cosche; questi, dopo aver difeso l’operato del partito, aggiunge: «Detto ciò, non penso che il mio partito sia indenne da infiltrazioni». Sospiro di sollievo tra i politici presenti, tra cui Bassolino, Napolitano e Nappi, che avevano temuto sulla reazione che tale domanda avrebbe potuto provocare. Lo stesso giovane incalza, sulla questione morale: a Torino due esponenti del partito sono stati coinvolti in indagini di tangenti, l’onorevole dice della loro subitanea sospensione dal partito. Appena l’anno dopo, alla morte di Berlinguer l’11 giugno, quel gruppo di giovani farà ritorno alla spicciolata in via delle Botteghe Oscure per salutare Enrico: «un leader molto meno triste di come veniva descritto e che per circa due ore era riuscito ad apparire come uno di loro, con gli stessi tormenti e l’identica voglia di trasparenza, l’arma essenziale in politica per poter combattere le mafie a viso aperto» (110).

Arrivati a questo punto, metà del libro, il lettore potrebbe chiedersi se poi alla fine quello che sta leggendo sia un libro su don Riboldi o altro. Subito, però, inizia Il tramonto della mobilitazione: i componenti della prima ora del gruppo  si disperdono «mentre don Riboldi continua a prendere parte a manifestazioni e dibattiti, costretto ad andare in giro con la scorta e non più soltanto con quel maresciallo dei vigili urbani di Acerra, Salvatore Auriemma» (111). Nell’88 l’autista verrà, insieme ad altri vigili urbani, in una informativa dei carabinieri alla magistratura, indicato come “in rapporto” col il clan Nuzzo. Perone inquadra la cosa come inevitabile nella trafila di rapporti propri di un luogo di camorra. Aggiunge però che Auriemma «Non è un combattente anticamorra, ma non avrebbe mai tradito il vescovo che l’onorava della sua amicizia» (112).  Don Riboldi è a conoscenza di un suo programmato assassinio che doveva avvenire durante la seconda marcia di Ottaviano, cosa confermata nelle parole dello scrivano di Cutolo, Pandico. Ultimo colpo di coda del movimento, è la manifestazione nazionale a Roma il 5 maggio 1984: il ministro della giustizia Martinazzoli, della Dc, tenta un dialogo con i giovani promotori, ma ormai è difficile capire se esista ancora un movimento o il tutto avviene sotto insegne di partito: quella di Roma è l’ultima manifestazione figlia della marcia di Ottaviano. Dai centomila di Napoli, però, si è passati ai diecimila di Roma. Il giudizio di Perone sul movimento: «Una straordinaria esperienza di mobilitazione, senza riuscire però a contagiare negli anni il resto d’Italia» (120).

Mentre la battaglia degli studenti segna il passo. Continua quella di don Riboldi: «Nel settembre dell’85 decide di vietare la festa patronale [… ]. Da sempre un “affare” per la camorra, […]. Telefonate intimidatorie giunte negli uffici della Curia – il vescovo dice – Basta tangenti su santi, quest’anno faremo a meno di cantanti e fuochi d’artificio» (121-122).  

Intanto l’anno prima, luglio ’84, è iniziata, con Tommaso Buscetta la stagione dei pentimenti;  nella lotta alla criminalità organizzata alcuni sindaci sostituiscono i ragazzi di don Riboldi. Un articolo di Leonardo Sciascia, “I professionisti dell’antimafia”, sul Corriere della Sera: lo scrittore siciliano teme che la lotta alla mafia possa diventare una modalità di nascondere incapacità politiche, ha come obiettivo Leoluca Orlando. “La Rete”, il partito messo su dal nuovo sindaco di Palermo, ha fatto la sua fortuna, la sua ragion d’essere sulla lotta ai boss. 

5 e 6 aprile del ’92 ultime elezioni della prima Repubblica: “Mani Pulite”. Occhetto riforma la sinistra e scende in campo Berlusconi, intanto. «La battaglia cominciata dodici anni prima con la prima assemblea studentesca di Palermo, poi quella di Ottaviano, si chiude qui, mentre mafia, camorra e ‘ndrangheta, senza più la pressione degli studenti, del sindacato e della Chiesa si rimodellano, cambiano volto e riorganizzano nell’ombra le proprie fila (127). Si sfalda anche la Democrazia Cristiana. Tanti giovani del movimento ormai sono ai vertici del potere amministrativo e politico. La legge sui collaboratori di giustizia apre la stagione dei pentimenti alla malavita Campana: il 35% dei 1007 collaboratori di giustizia sono uomini della camorra.

Inizia La missione impossibile  del vescovo di Acerra. Raffaele Cutolo, tra i pochi a non pentirsi, chiede dal carcere di incontrare  don Riboldi; lo stesso farà Nicola Nuzzo, boss di Acerra: «Due criminali, nemici diretti, riconoscono la sconfitta e si mostrano finalmente a don Riboldi come persone» (134).  Difficile per il vescovo gestire questi incontri tra la sfera pubblica e quella privata. Don Elvo Damoli, storico cappellano  di Poggioreale, porta al vescovo la notizia della possibile dissociazione di boss e gregari. Nuova battaglia per don Riboldi che incontra gli uomini delle istituzioni nel vano tentativo di mediare la resa dei camorristi con la loro richiesta del rito abbreviato nei processi in corso e da venire. Il ministro dell’Interno, Nicola Mancini, nonostante delle aperture resta dubbioso, più possibilista il ministro Conso, «dice  sì, ma rinvia a chi verrà dopo di lui, mentre don Riboldi viene isolato dalla Chiesa napoletana» (138). Qualche centinaia di camorristi in una lettera indirizzata al procuratore di Salerno, Alfredo Greco, dichiarano di essere pronti a dissociarsi, per provarlo fanno trovare un’autovettura piena di armi. Dieci anni prima nell’84 era successo qualcosa di simile col cardinale di Milano, Carlo Maria Martini, e i terroristi rossi. La trattativa per la dissociazione dei camorristi approda nel nulla. Di essa parleranno diversi pentiti ognuno dei quali: «Racconta la storia che gli è più conveniente rispetto al Magistrato che ha davanti. Fatto sta che sul finire dell’inverno del ’94 don Riboldi, isolato fin da subito dai vertici della Chiesa napoletana, vede via via sfumare anche le rassicurazioni che aveva ricevuto dai vertici dello Stato» (143). Il 19 marzo di quell’anno, arriva l’omicidio di don Peppe Diana, che era diventato prete nel marzo dell’82 quando era iniziata la nostra epopea: «Non credo di allontanarmi dalla verità, se parlo di vendetta» (145) dirà don Riboldi, che sembra vedere in quell’assassinio anche un segnale contro l’ipotesi della dissociazione. Nella Pasqua di pochi giorni dopo dirà. «Non mi tirerò mai indietro rispetto all’impegno preso di aiutarvi ad uscire dall’inferno. Pregherò questa notte affinché i camorristi buttino le armi e le consegnino a Dio, ancora prima che agli uomini. Date le vostre armi al Signore diventate buoni e abbiate mani che invece di essere sporche di sangue possano conoscere il profumo della bontà» (146). Sembra essere l’eco del discorso di Giovanni Paolo II, l’anno prima nella valle di Agrigento: Convertitevi! Un giorno arriverà il giudizio di Dio!

Tutta la vicenda della trattativa per la dissociazione, che da un certo punto in poi vede in campo anche la sponda mafiosa, è ricostruita nei particolari da Isaia Sales nel suo libro I preti e i mafiosi, che vede le gerarchie della Chiesa come informate dell’operato di don Riboldi nel merito, cosa smentita dai fatti già narrati. Nel merito della vicenda, i magistrati dell’epoca, ritennero don Riboldi inconsapevole strumento nelle mani dei padrini che avevano l’obiettivo di bloccare le collaborazioni.

Nelle carceri don Riboldi dialogava, già dagli anni ’80,  anche con i terroristi: «Amico e assistente spirituale di Marco Barbone, Enrico Fenzi, Antonio Savasta, Valerio Morucci, Adriana Faranda,  capi storici delle Br, di Prima linea e del gruppo “XXVIII marzo”» (155). Un dialogo condiviso con Adolfo Bachelet, fratello del giurista assassinato, e con suor Teresilla; una mano tesa senza niente chiedere  scrive in una lettera un terrorista dell’epoca. 

Nel resoconto del giornalista-scrittore rientra anche, però, La colpevole distrazione del movimento e di don Riboldi: «Nessuno si accorge, neanche il vescovo, che sta per scatenarsi una nuova mattanza per nulla paragonabile a quella dell’82 perché questa volta la morte arriva silente e colpisce soprattutto gli innocenti. Al posto dei mitra e delle pistole fumanti degli uomini di Cutolo e dei suoi avversari, è il cancro a seminare dolore e lutti» (162-163).  È agli inizi degli anni Novanta che nelle dichiarazioni dei pentiti comincia a comparire il traffico dei rifiuti tossici. In Campania a fronte di 19 discariche rifiuti autorizzate se ne contano 180 abusive dove finiscono rifiuti urbani e tossici.  «È questo il tragico epilogo della lotta di don Riboldi e dei suoi ragazzi?» (166), si chiede il Perone. E anche qui l’autore offre una ricostruzione meticolosa degli intrighi e intrallazzi tra potere politico e poteri occulti contraltare di chi, martire senza speranza, come l’ex scout Michele Liquori, unico componente di un fantomatico “nucleo ecologico” della polizia municipale di Acerra, tenta l’impossibile fino a rimetterci la vita. La moglie dirà: «Un giorno è tornato con le suole che si squagliavano sul pavimento della cucina, non so dove avesse camminato, ma le scarpe erano letteralmente in decomposizione. Un’altra volta ha perso la voce all’improvviso.  Certe notti lo annusavo sconcertata, trasudava odore chimico, puzzava di pneumatici bruciati» (171).

Anche se tardi, però, anche qui arriva l’impegno di don Riboldi, siamo nel 2001,  da tre anni è divenuto vescovo emerito, fa appello ai suoi ragazzi di una volta, «per impedire la venuta del termovalorizzatore ma anche di tutto quello che mette in pericolo il bene della nostra salute» (173). Bassolino ora è presidente della regione. Soluzione potrebbe essere la delocalizzazione degli impianti, lo chiedono anche i vescovi, che siano in grado di garantire la massima trasparenza alle comunità locali. Ma la condanna a questa ulteriore sfida del presule, dice Perone, è stata già emessa negli anni Settanta, perché: «Cercare altri territori per realizzare più impianti, innescando scontri con le  popolazioni e perdere voti non conviene a nessuno, soprattutto quando c’è già un’area dove sorge una delle peggiori industrie chimiche d’Europa» (174-175). Si tenta di resistere: scende in campo anche il successore del nostro, mons. Giovanni Rinaldi. Nelle difficoltà sul da farsi, don Riboldi coltiva l’idea della realizzazione di un grande ospedale per i bambini, un polo pediatrico. La cosa sembra fatta, ma solo nelle parole dei politici campani e nazionali.

«Il 18 agosto, (del 2004) scortata dalla polizia, arriva la prima ditta incaricata di aprire il cantiere per la realizzazione del termovalorizzatore. […] Acerra è il punto di riferimento nazionale dei vari comitati che lottano per la difesa dell’ambiente […] Don Riboldi questa volta resta in disparte, ha 81 anni e la sua presenza farebbe ombra a chi ha preso il suo posto, Rinaldi, che orgogliosamente è in prima linea insieme con i sindaci della zona. Sul fronte della battaglia, insieme con migliaia di cittadini, nei fatti c’è solo la Chiesa  […] Il 29 agosto 2004 si ritrovano in piazza ventimila persone per dire no all’inceneritore […] “Non rubateci il futuro” c’è scritto su uno striscione. […] Quella che era una marcia pacifica, giunta al cantiere dove stanno per cominciare i lavori di realizzazione dell’impianto, si trasforma in una sommossa. Cariche, scontri, alcuni con i volti coperti lanciano pietre contro i finanzieri schierati a difesa del cancello. Una quarantina di persone finisce in ospedale e la protesta va avanti per alcuni giorni, tra blocchi stradali e linee ferroviarie presidiate dai manifestanti» (178-181).

Nel 2009 l’inceneritore verrà inaugurato con la presenza di Berlusconi e Bassolino, il vescovo Rinaldi declina l’invito a benedire l’impianto. Altra battaglia sul fronte  immigrazione, in risposta al cardinale di Bologna Giacomo Biffi che dichiara «più immigrati cattolici e meno mussulmani», applaudito anche dalle Lega,  don Riboldi risponde: «Ma stiamo scherzando? Se cominciamo a selezionare gli immigrati in base alla loro religione che cosa faremo dopo: passeremo alla selezione della pelle? Io credo che lo Stato abbia un solo dovere: accertare che gli immigrati siano in regola con la legge, punto e basta» (183).

Amare le conclusioni di Perone: «Pastore di un popolo purtroppo sconfitto, perché mentre don Riboldi scrive settimanalmente le sue omelie sul web e dà vita alla Fondazione Sant’Alfonso de’ Liguori, anche il progetto del Polo pediatrico, da lui fortemente voluto, viene instradato lentamente sul binario del fallimento, […] Il più grande ospedale pediatrico del Mezzogiorno avrebbe potuto accelerare le bonifiche promesse nella Terra dei Fuochi, fermare l’arrivo di altri impianti tossici, trasformare l’inceneritore in un accidente della storia  non nel simbolo della disfatta. Così non è avvenuto. Povero vescovo, odiato, poi rispettato e infine rincorso dai camorristi; amato e preso in giro da una misera politica senza più neanche un briciolo di memoria» (186-187).

A copertura di tutto questo, il nuovo rinascimento napoletano di Bassolino? La camorra non è neppure debilitata: «Nel ’98 116 omicidi, di cui 94 tra il capoluogo e il suo hinterland; l’anno successivo 76 e quando la Commissione completa la relazione, le vittime sono già 44» (194). È ad Ermanno Rea, dirà Napoli invece è tutta una piaga, e Gerardo Marotta, quest’ultimo prima entusiasta di ciò che stava accadendo a Napoli, poi pentito di aver riaperto nel ’95 il portone di Palazzo Serra di Cassano, dato il compito di svegliare i napoletani dall’illusione rinascimentale. Anche l’impegno della Chiesa rallenta, don Luigi Merola, il giovane prete che dopo l’omicidio di Annalisa Durante, chiede ai suoi fedeli di ribellarsi ai clan, è richiamato all’ordine dal cardinale Giordano. Don Riboldi resta sul fronte, risponde al cardinale. Bassolino, ora presidente non riesce a fronteggiare l’emergenza rifiuti.

Don Riboldi trascorre la sua “pensione” da vescovo nella mansarda di un ex convento domenicano, sui tetti di quei palazzi fatiscenti che tanto l’avevano colpito al suo arrivo ad Acerra: «Angolo cottura, tre poltrone e la tv. Nello studiolo attiguo la macchina da scrivere elettrica, l’Olivetti di sempre. E poi carte e libri dappertutto, casse piene di lettere meticolosamente catalogate che riceveva da ogni parte d’Italia. Più in là una piccola stanza trasformata in cappella e la camera da letto spoglia, come quella di una cella monastica» (201). Muore il 10 dicembre del 2016, solo qualche mese prima aveva deciso per le condizioni di salute di trasferirsi a Stresa nella casa dei rosminiani. I padri lasciano l’annuncio della sua dipartita alla sua gente: meno di dieci minuti dall’annuncio del Mattino e la notizia rimbalza dovunque, si limita a scrivere con triste delicatezza Perone.

«Tre giorni dopo la morte, il 13 dicembre, la bara giunta da Stresa è poggiata a terra nel duomo di Acerra gremito al pari di quella domenica mattina del 1982 quando don Riboldi pronunciò la prima invettiva anticamorra» (204). Ad officiare i funerali è il suo secondo successore mons. Antonio Di Donna: «Non disperdiamo  la sua eredità, alziamo la testa per essere degni di lui. Non lasciamo che ci rubino la speranza. Lui è stato uno strenuo difensore della città e del suo gregge: andava avanti per guidarlo, e lo seguiva per evitare che qualcuno si perdesse. Siamo degni di lui. […]  Avremo tempo per riflettere sulla sua lezione, don Antonio che odiava il peccato e amava i peccatori, e quindi era molto più che il santino laico del “prete anticamorra” o “anti-qualcosa» (206-207).

Piero Perone, ha potuto riscrivere l’epopea storica di un popolo giovane in cammino, in una maniera così sentita e partecipe, solo perché parte viva di quel movimento studentesco degli anni ’80 e ora che quella strada aperta nel deserto, rischia, anzi già sembra, essere coperta dalla sabbia, non ci sta, non si arrende e come nella sua relazione al Convegno Ecclesiale di Aversa del novembre scorso,  conclusa con l’invito e la speranza della ridiscesa in campo della Chiesa, a fronte del tradimento della politica e del sindacato, anche la conclusione del suo libro, a leggere bene tra le righe, pone ancora la speranza, che una strada nel deserto possa rinascere dai tanti, preti e no, che oggi lottano sul campo. Ne cita i nomi, tra gli altri il nuovo vescovo di Napoli che si fa chiamare solo col don,  senza enfasi o retorica, poiché sa che muovere le acque per fare il bene, rendere l’acqua salata, non è cosa facile, c’è poco di cui esaltarsi, molto da soffrire e forse anche da morire.