GIAN PAOLO BORTONE – IMPARARE DAL VENTO DI SERGIO VENTURA. UNA RECENSIONE

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Introduzione: Minority report

Washington, nel 2054, è diventata una città a impatto zero criminale: la Pre-crimine, una divisione d’avanguardia della polizia, ha raggiunto la perfezione investigativa grazie alle straordinarie abilità dei Precog, tre esseri in grado di vedere i crimini prima che si realizzino. Il tasso di criminalità è stato azzerato, il sistema funziona con la precisione di un meccanismo a orologeria. Tuttavia, questo equilibrio viene scosso quando John Anderton, capo della Pre-crimine, è accusato di essere il futuro assassino di un uomo che non conosce. Anderton si sottrae all’arresto e alla condanna preventiva e nella sua disperata ricerca della verità, scopre che il futuro non è così immutabile come si credeva. I Precog, infatti, non vedono sempre la stessa scena: esistono rapporti di minoranza che vengono sistematicamente scartati. Questi rapporti suggeriscono un futuro alternativo, una possibilità di scelta che l’individuo può ancora compiere. Il rapporto di minoranza rappresenta l’anello debole, il granello di sabbia che inceppa il perfetto ingranaggio della Pre-crimine, ma soprattutto, smascherando la corruzione nascosta dietro il velo dell’infallibilità, ricorda che la vita è indissolubilmente legata all’avventura della libertà, alla possibilità di scegliere e cambiare.

Il film Minority Report può essere letto come una metafora per il cammino sinodale intrapreso dalla Chiesa universale e italiana dal 2001. Il Sinodo è stato fatto oggetto di numerose pubblicazioni e interventi. La rivista TeLa ha, a tal proposito, pubblicato due fascicoli tematici (qui il primo; qui il secondo). In questo mare di pubblicazioni si segnala per originalità e stile l’agile, ma denso libro scritto da Sergio Ventura, Imparare dal vento, pubblicato per le Edizioni Dehoniane. Imparare dal vento significa, prima di tutto, non scartare il rapporto di minoranza, non tanto per il (comunque necessario) tentativo strategico di coinvolgere quanti più soggetti possibili nel processo, ma soprattutto perché questo rapporto ha la capacità di mettere in luce e far emergere l’azione costante e tangibile dello Spirito, spesso invisibile al mondo ecclesiale. Questo vale, come vedremo, sia per la minoranza interna nella Chiesa che per le minoranze senza voce apparentemente fuori dal recinto ecclesiale.

Il libro

Il testo propone due linee di indagine distinte: in primo luogo, una ricostruzione genealogica del pensiero sinodale di papa Francesco. Sergio Ventura, attraverso una puntuale esplorazione di documenti, discorsi e dichiarazioni, cerca di spiegare la complessità e la varietà di fonti alla base sia della formulazione che della continua evoluzione del Sinodo. Al contempo, si impegna a dare ordine a un materiale sempre più vasto e intricato, a volte ridondante e difficile da maneggiare, identificando quegli snodi cruciali del processo sinodale che non possono essere ignorati. In secondo luogo, ripercorre le tappe, gli slanci e le resistenze che sta vivendo il cammino sinodale della Chiesa italiana. La prospettiva, più volte utilizzata dall’autore anche negli articoli sul blog VinoNuovo di cui è redattore, e nelle scorribande sull’Osservatore romano, è quella del commento che fa parlare i testi, cercando di far emergere sapientemente il filo o i molteplici fili conduttori di un discorso polifonico, complesso e articolato. Con rigore ma anche praticando la gentilezza, Ventura riconosce e sottolinea gli elementi positivi anche di posizioni molto distanti dal suo pensiero, senza tuttavia risparmiare, soprattutto nella seconda parte, critiche incisive e radicali. Il valore di un testo si delinea non solo nella sua capacità di fare sintesi delle questioni trattate (e in questo senso, questo libro si presenta come uno strumento indispensabile per chi voglia confrontarsi con il cammino sinodale della Chiesa), ma anche per le questioni che solleva. Mi permetto di segnalarne quattro particolarmente decisive.

Il Sinodo come ragione populista

Nel 2005, Ernesto Laclau ha pubblicato La ragione populista, un testo che avrebbe meritato maggiore attenzione editoriale. Il titolo sembra un ossimoro, visto che combina i principi della razionalità con il populismo, solitamente considerato una modalità di partecipazione alla politica o alla vita sociale priva di contenuti specifici e mirata ad attirare il consenso delle masse, spesso sfruttando argomenti e istinti reazionari. Tuttavia, Laclau sostiene che il populismo è un dispositivo formale neutro che può incarnarsi in diverse posizioni politiche o sociali. Non solo: rappresenta la dimensione universale del politico. Il populismo emerge quando una serie di domande sociali, lasciate inevase dalla politica ufficiale, si concatena in una serie di equivalenze, ossia di temi propri di un singolo gruppo che si uniscono a formare una catena con altri temi di altri gruppi tenuti insieme da un significante vuoto catalizzatore e dall’emersione di un «popolo» come soggetto politico universale.

Da questo punto di vista, il «sinodo» rappresenta quel significante vuoto intorno al quale si sono create catene equivalenziali di bisogni, rivendicazioni e domande esistenziali, di fede e di vita, che la Chiesa, nella sua dimensione istituzionale e nella sua forma ufficiale, ha lasciato inevase: riforma del potere della Chiesa, pulizia rispetto agli abusi sessuali, attenzione agli ultimi, ruolo delle donne, dialogo con il mondo contemporaneo, riforma del sacerdozio. Questi temi, a volte connessi e altre volte meno, si sono trovati accomunati sotto l’ombrello del sinodo. Il sinodo è diventato il nuovo nome comune per indicarle, rappresentarle e farle emergere. Si è realizzato in questo modo un intreccio fecondo tra l’iniziativa di Papa Francesco e le attese o il fermento (di alcuni settori e gruppi) della Chiesa.

Per questo motivo se, come puntualmente evidenziato da Ventura, il sinodo si presenta un progetto poliedrico già a monte, è destinato a diventare ancora più frastagliato a valle, poiché incontra e raggruma intorno a sé una serie di domande proprie dei vari soggetti sollecitati e coinvolti. Questo genera, in primo luogo, quel senso di vertigine e confusione più volte sperimentato nel cammino sinodale in cui «sinodo» sembra essere diventato un passepartout che tiene insieme tutto e il contrario di tutto, persino ciò che sembra contraddirlo nel metodo e nel merito (come le parole di Mons. Camisasca nelle pagg. 121-126 del testo, e il modo in cui molte diocesi hanno evaso l’obbligo sinodale attraverso conferenze con esperti, quasi sempre preti o vescovi interni al mondo ecclesiale). Questa complessità è, in secondo luogo, alla base delle resistenze e delle opposizioni al cammino sinodale e, più radicalmente, della formazione di un popolo alternativo che non trova nel sinodo l’accoglimento delle proprie istanze e si organizza intorno a temi come tradizione, continuità e identità, che di per sé non sarebbero antagonisti, ma vengono agitati come tali. Infine, è alla base delle critiche che considerano il cammino sinodale deludente, inconcludente e meramente formale (come la recensione di V. Albanesi e M. Rossi alla Sintesi del sinodo italiano, citata a pag. 145). Se le proprie richieste e interpretazioni rappresentano, infatti, l’unica lente attraverso cui si giudica un processo per sua natura plurale, allora esso apparirà inevitabilmente in ritardo, manchevole e deludente.

Modello dell’autoconsapevolezza e modello della vita

Una delle categorie più comuni per analizzare le dinamiche all’interno della Chiesa è la contrapposizione tra progressisti e conservatori. Tuttavia, la genesi e lo sviluppo del Sinodo, come presentato nel testo di Ventura, dimostrano che questa dicotomia è fuorviante. In gioco non ci sono visioni più o meno progressiste o conservatrici della religione cattolica, ma due modelli distinti di comprensione della fede. Da un lato, abbiamo il «modello dell’autoconsapevolezza» che vede la fede come qualcosa di pensato, ragionato e consapevole. Questo modello può avere orientamenti conservatori o progressisti e, in base a questi presupposti, può progettare percorsi di formazione, privilegiare determinati valori non negoziabili e, infine, esprimere concetti morali, liturgici e sociali. Al netto però delle differenze di orientamento e interpretazione, al centro di questo modello c’è una concezione della fede informata, ancorata ai documenti e alla riflessione teologica. È un cristianesimo autoconsapevole di cosa significhi essere cristiani oggi. Dall’altro lato, c’è il «modello della vita», in cui la ricerca di Dio segue percorsi più accidentati, eterodossi, spontanei e talvolta disordinati. Questo modello può entrare in conflitto con le forme istituzionali della fede (Chiesa, parrocchia, parroco, vescovo, superiore, comunità) ma esprime una fede «anonima» spontanea e istintiva, radicata in un tessuto antropologico di desiderio e apertura al trascendente. Questo modello non è una novità; è sempre stato presente nella Chiesa, ma è stato considerato qualcosa da purificare, formare e regolarizzare. La Chiesa dell’autoconsapevolezza aveva il compito di ordinare, dotare di contenuti, formare, normalizzare a fede vitale e popolare, secondo una rigida divisione tra Chiesa docens e Chiesa discens.

Il Papa invita a ribaltare questo discorso: la fede disordinata, popolare e «anonima» non solo è già pienamente fede, ma è anche una forma della Chiesa docens che ha qualcosa da insegnare alla «Chiesa dell’autoconsapevolezza» poiché in essa lo Spirito parla al cuore dell’uomo. Questo concetto scardina un impianto idealistico-centralizzato e fa emergere la tensione esistenziale propria di ogni cammino di fede. Al tempo stesso, recupera l’insegnamento spesso rimosso di Gaudium et spes: le accelerazioni, contraddizioni e contrapposizioni che hanno portato all’attuale marginalizzazione del discorso religioso non sono che l’altra faccia della sfiducia o del paternalismo con cui la Chiesa ha guardato e continua a guardare alla modernità e al mondo contemporaneo. Non è un caso che sia sempre più difficile entrare in sintonia con le povertà del nostro mondo e essere credibili per le nuove generazioni. Ovviamente, qui non si tratta di stabilire la superiorità di un modello sull’altro, ribaltando il rapporto tradizionale, ma di ripensare il ruolo dei credenti non come «esperti di Dio», dispensatori di patenti di legittimità e regolarità, ma come rabdomanti alla ricerca di ciò che lo Spirito Santo ha già seminato. Un’eco di questa prospettiva si ritrova nella testimonianza del card. Hollerich (pag. 91), che personalmente mi ha ricordato la storia raccontata da Shusaku Endo in Silence.

Una riforma radicale

La necessità radicale di ripensare la fede non può prescindere da una riforma altrettanto radicale delle strutture ecclesiastiche e dall’eliminazione delle patologie che spesso le affliggono, come il clericalismo e l’abuso di autorità. Tuttavia, ciò è possibile solo se coloro che sono chiamati a esercitare il ministero dell’autorità comprendono sé stessi e questo servizio, prima di tutto, come un continuo processo di apprendimento. Questo è il cuore di uno dei problemi fondamentali: senza conversione, non c’è possibilità di avviare processi di cambiamento. È necessario quindi instaurare un processo così articolato da far emergere una nuova vita democratica all’interno della Chiesa. La questione della democrazia, però, deve essere compresa correttamente: non si tratta di ridurre la complessità delle anime a una sorta di parlamentarismo formale, con riunioni e strutture che alla fine non solo non toccano lo status quo ma addirittura finiscono per legittimarlo. Né si tratta di ribaltare semplicemente la piramide del potere. Si tratta di riorientare la piramide e far emergere una nuova geometria della democrazia che si accordi con la «nuova geografia della salvezza» indicata da Papa Francesco.

Su questo punto, però, occorre essere franchi: le dichiarazioni di principio spesso non trovano piena applicazione, non solo nella concreta gestione del cammino e, ancora più importante, del potere nelle periferie, ma anche al centro della Chiesa. In questo senso, il Sinodo sull’Amazzonia e la tensione tra il discernimento del Sinodo e il contro-discernimento del Papa non solo costituiscono un’ipoteca sulla effettiva possibilità che il processo generi reali cambiamenti, ma pongono anche un problema ermeneutico: fino a quando queste premesse sono valide? Solo finché si condivide lo stesso contesto linguistico e semantico? Oltre alla retorica, quanto spazio c’è davvero per l’altro, senza che intervengano azioni di assimilazione o di rigetto?

Da questo punto di vista, il Sinodo è chiamato a generare processi concreti, visibili, per non trasformarsi in una bolla linguistica (cf. il linguaggio vivace e simbolico di Papa Francesco: la perla, l’armonia, la sinfonia, lo stupore di un bambino, l’apostolato dell’orecchio) che però lascia inalterata la realtà. Ventura ne denuncia il rischio a pagina 152, indicando il pericolo di risolvere tutto in un «mero rivestimento linguistico – un’operazione di maquillage», e poi dedica l’intero capitolo conclusivo “Chiesa italiana: a che punto siamo?”, pagg. 156-181, a fare il bilancio del cammino sinodale del 2023, mettendo in evidenza con sobrietà quanto siano ancora fumose alcune indicazioni.

Il caso del processo sinodale italiano, ripercorso con attenzione e severità di giudizio da Ventura, è in tal senso emblematico. Il testo più volte ricorda come la Chiesa italiana debba fare i conti con il grande rimosso della stagione di Ruini che non solo ha segnato una cesura rispetto al percorso postconciliare della Chiesa, ma rischia di trasformarsi in una seria ipoteca anche sulle scelte future.

Conversione teologica

Un’importante questione emerge ripetutamente nel testo di Ventura (pp. 150-151) e rappresenta una sfida inevitabile per il cammino sinodale: la questione teologica. La marginalizzazione del discorso religioso, relegato a mero fatto privato, ha concretamente ero la credibilità delle Facoltà teologiche, che in risposta si sono chiuse in un reticolo di autoreferenzialità. I piani di studio, sebbene recentemente riformati, risultano obsoleti; persino la Veritatis Gaudium appare un documento che potremmo definire con un eufemismo «contraddittorio» (Piero Coda credits). La teologia sembra così condannata all’irrilevanza. Molto spesso si pensa che la distanza che si è creata sia riconducibile a un gap comunicativo che il linguaggio polveroso della teologia non riesce a colmare. Ma il problema è molto più profondo: da un lato, c’è un ritardo cronico nella comprensione dell’uomo, del tempo, delle dinamiche storiche e culturali che stanno attraversando il mondo contemporaneo (o, meglio, i mondi, pag. 173); dall’altro, si è creata paradossalmente una distanza ancora più radicale con i processi di trasmissione della fede alla base della prassi quotidiana delle comunità. Con conseguenze evidenti: una teologia afona e autoreferenziale cede il passo a una prassi senza capo né coda non scalfita, se non temporaneamente, neanche dalla pandemia, che si contenta di fornire prestazioni e sacramenti a vecchi e bambini, ma di fatto incapace di aprire nuovi spazi e di andare alla ricerca fuori dalla propria comfort zone di quei tesori nascosti suscitati dallo Spirito o, per usare una metafora di Papa Francesco, di quella perla che si forma soltanto assimilando quel granello di sabbia esterno che l’ha irritata (pag. 67). Una canzone di Caparezza dice: «è troppo tardi, ma non mi fermerò». Anche per la teologia è troppo tardi. Prima se ne rende conto, prima può ritrovare spinta e motivazioni per non fermarsi, non perché deve ritrovare o conquistare posizioni, ma perché ha ancora qualcosa da dire all’uomo.

Conclusione

Consigliato ai sostenitori della Lega, ai vescovi italiani emeriti e non, ai nostalgici dei bei tempi andati, a quelli che ormai non si può più dire nulla, a chi ha difficoltà con il tappo delle bottiglie, ai catechisti dell’iniziazione cristiana, agli studenti degli Istituti di Scienze religiose, a quanti non si sentono accolti e a quanti non vogliono accogliere; a chi se ne è andato e a chi vuole tornare; a chi è in ricerca e a chi è in attesa di essere trovato; a chi ama la categoria «noi» e a chi invece preferisce quella di «altri»; a rabdomanti e aspiranti tali e a chi andando, per mare o per terra, abbia voglia di imparare dal vento.