ETTORE FRANCO – PRESENTAZIONE DEL VOLUME “DON PEPPINO DIANA – UN PRETE AFFAMATO DI VITA” DI S. TANZARELLA

DATA DI PUBBLICAZIONE:

Buona sera, sono grato al Direttore Prof. don Guido Cumerlato per avermi invitato a parlare della testimonianza profetica e del martirio di don Peppe Diana presentando l’eccellente volume del Prof. Sergio Tanzarella Don Peppino Diana. Un prete affamato di vita. Con fraterna e squisita gentilezza il prof. Tanzarella mi ha personalmente donato una delle prime copie del volume alle ore 11 del 27 febbraio e alle ore 18 del giorno dopo l’avevo letteralmente divorata. Sì, aspettavo da anni, un’opera che cominciasse a delineare storicamente, basandosi sui documenti e sulle testimonianze certe, la figura di questo «prete affamato di vita» come recita il sottotitolo. Con chiarezza il prof. Tanzarella scrive nella Premessa:

La tua vita è stata falsificata e barattata con quella di un qualsiasi eroe senza limiti né umanità. Eppure sarebbe bastato prestare appena attenzione alla fedeltà alla storia e alle fonti per capire che eri soltanto un giovane prete, affamato di via, di studio e di zelo pastorale

S. Tanzarella, Don Peppino Diana. Un prete affamato di vita, pag. 6

Sottoscrivo in pieno e condivido l’impostazione e il contenuto di questo libro che

non ha […] pretesa di completezza e vuole tracciare un primo elenco di problemi aperti che possa promuovere una ricerca storica sulla figura e sull’opera di Diana senza curarsi delle menzogne dei calunniatori […] e senza cadere però nella pochezza dell’agiografia spicciola carica di pacchiani errori storici, dannosa forse più delle calunnie

S. Tanzarella, Don Peppino Diana. Un prete affamato di vita, pag. 19

Prima parte. Una lettura a volo di rondine

Il primo capitolo nella sua pars destruens ha uno scopo positivo: impostare la ricerca storica rispetto a coloro che «ignorando sia il contesto in cui maturarono le sue scelte sia le motivazioni che quelle scelte sostennero» hanno usato il nome di Don Diana come uno slogan per un’antimafia di maniera (p. 18). Depistaggi e cancellazioni hanno tentato di far credere che don Peppe fu ucciso per caso e non per quello che la sua coscienza sacerdotale gli imponeva: «una pastorale di aderenza alla realtà, di lettura dei segni dei tempi, di comprensione del dovere della Chiesa della profezia e della parresia» (p. 30).

Il secondo capitolo “Don Peppino Diana non è don Matteo” smaschera la fiction della RAI del 2014 che presenta un personaggio storico falsificato con precisi scopi mistificatori e di normalizzazione (p. 36), interessata politicamente a un’antimafia di mestiere, seguendo la romanzata e inventata presentazione di Saviano in Gomorra.

Fatta chiarezza sulle finte o false ricostruzioni e cancellazioni, con precisa e puntuale documentazione si traccia invece il contesto sociale a partire dal terremoto del 23 nov. 1980 che sulla tragedia di migliaia di morti e sfollati fece scivolare anche una pioggia di circa 70.000 miliardi di lire per una ricostruzione infinita, fondi gestiti e controllati in parte dalla criminalità e in parte da infiltrazioni camorristiche che portarono allo scioglimento di vari consigli comunali. Si determinò così una mentalità camorristica diffusa e capillare con comportamenti omissivi o collusivi dei pubblici poteri, come risulta dalla relazione Cabras del 1993-94 alla Commissione Parlamentare antimafia (p. 52). Questo è il contesto dei primi anni di ministero di don Diana, con diffusione di lavoro nero e caporalato fino a forme di schiavitù degli immigrati nel casertano. In questo contesto vanno inquadrati i dodici anni di ministero di don Peppe “profeta” e non “funzionario del sacro”, ma «un uomo e un prete normale» (p. 59 Tanzarella, ma già p. 31 «persona normale «per Nicola Alfiero e don Carlo Aversano).

E così siamo attrezzati per leggere i due capitoli che sono al centro e costituiscono il cuore del libro: quello sulla formazione “Peppino Diana studente della Sez. San Luigi della P.F.T.I.M.” e quello sul ministero “la missione sacerdotale di don Peppino Diana”. Del primo sottolineo solo due frasi che includono e danno senso a tutto il cammino:

il giovane Peppino, grazie alla sua crisi vocazionale “comincia a capire un po’ la vita”. Un processo di emancipazione che sarà d’ora in poi irreversibile e che ne caratterizzerà l’originalità nell’essere un prete fuori dal clericalismo (p. 74).

E nel profilo personale alla fine del percorso formativo nel Seminario di Posillipo egli stesso scrive:

Io alla guida di una comunità cristiana? […] Il mio vivere oggi questa realtà a livello personale è lo sforzo di essere sempre più fedele a Cristo. In questo cammino cerco di incarnare nella mia vita la figura del Servo: docile al comando di Dio e pronto a patire per la salvezza di molti (p. 77).

Del secondo, nella scansione temporale (due anni segretario del Vescovo e assistente scout, dal 1984 collaboratore a San Salvatore e dal 1989 parroco a San Nicola in Casal di principe) che segna il crescendo della vocazione profetica fino al documento Per amore del mio popolo del Natale 91 e al martirio il 19 marzo 1994, mi piace sottolineare il senso dei canti del Servo che Carlos Mesters aveva individuato quando, toccato anche lui dalla sofferenza, si ricordo di quella mamma che negli incontri biblici chiedeva con insistenza quale missione potesse esserci per suo figlio bloccato in uno stato vegetativo su una sedia a rotelle:

«Nella lotta per la giustizia e per la fraternità deve esserci posto per tutti. […] Chi sa che la parola di Dio non ci porti qualche luce per illuminare il problema della sofferenza del popolo. Ma sta attento! Non entrare mai da solo nella Bibbia. Porta con te, nel tuo ricordo, il dolore del popolo, cui la Bibbia appartiene»

C. Mesters, Missione di un popolo che soffre, Cittadella, Assisi 1989, 12-13

Ritornerò sul senso della martyria, della testimonianza profetica, della vita data di don Peppe fino al martirio a causa dell’amore per il Signore e per il suo popolo. Intanto possiamo continuare a scorrere gli ultimi tre capitoli di questo libro.
Quello sulle “testimonianze esemplari ai processi” dalle quali emerge il contrasto tra la ricerca ossessiva di presunte relazioni con donne (una delle prime calunnie messe in giro dalla camorra) con la testimonianza da parte di chi lo aveva frequentato di una personalità solare ed espansiva, sempre disponibile, in mezzo alla gente … ma anche a volte di non condivisione da parte di vertici dell’ associazione scouts e di ambienti ecclesiastici, accuse e lettere anonime ripetute, isolamento e forse in fine messo anche sotto controllo … mentre gli avvocati di parte civile riconoscono, contro le squallide calunnie, l’uccisione di un uomo che stava a difendere i principi della legalità, ammazzato per il suo impegno sociale (p. 123). Notevole il ruolo decisivo dell’ispettrice di PS Silvana Giusti e del testimone Augusto Di Meo, il fotografo amico di don Peppe, nell’arresto dell’assassino materiale (p. 124-130). Sconcertante l’interrogatorio irriverente di Mons. Nogaro convocato a deporre nel processo contro Nunzio De Falco (pp. 130-133) e la constatazione della «decisione omicida senza spiegazioni» emersa dalla lunga deposizione dell’omicida mai confesso Giuseppe Quadrano

Emerge così una dimensione non più umana, priva di qualsiasi motivazione e di senso al di là di ogni possibile comprensione. Ma ciò che fa inorridire ancor di più è il consenso che l’area grigia della società ha accordato a questo mondo di morte, servendosene ed essendone a sua volta condizionata» (p. 135)

L’incontro tra “Il Vescovo Raffaele Nogaro e don Peppino” a partire dal 1991 accresce e rafforza la franchezza dei profeti che lo condurrà al martirio. Il Vescovo Nogaro, che anticipa di una ventina d’anni l’Evangelii Gaudium di Papa Francesco con una pastorale dalle porte aperte, riconosce e ripetutamente ha riletto in questi 30 anni la testimonianza di don Peppino come “autentico martirio di pace” (p. 143).
“Nel nodo del dramma umano” come ultimo capitolo troviamo la conclusione di questo inizio di una seria rilettura storica:

La vita di don Peppino Diana fu quella ordinaria di un prete di uno dei tanti paesi devastati da una infinita speculazione edilizia, un ex paese di campagna trasformato in un deforme e anonimo agglomerato di cemento, ridotto in una disperata periferia, controllato dalla occhiuta vigilanza della camorra con l’alleanza indiretta e talvolta diretta della politica dell’epoca. Egli progressivamente matura l’idea di organizzare una forma di resistenza nella quale coinvolge con successo diversi altri confratelli». Per amore del mio popolo non è il «gesto isolato di chi è alla ricerca di protagonismo e pubblicità, ma una scelta comunitaria di straordinaria forza e quindi potenzialmente avvertita dalla stessa camorra e dai benpensanti dell’epoca come molto, molto pericolosa (p. 155).

E la camorra scatena l’odio contro di lui, … contro la fede e il dono di sé che rende la sua morte ‒ non cercata, né voluta ma messa in conto ‒ come il martirio della missione, nella missione di un popolo che soffre, e scopre, in quel figlio che apparentemente sembrava “inutile” in una sofferenza innocente e senza senso, la partecipazione alla missione del Servo che dona la vita e salva il mondo (Is 52,13-53,12; Mc 10,45).
Agli otto capitoli, seguono “Otto testimonianze per non dimenticare”: della cugina Marisa Diana, di Luigi Mozzillo amico del seminario minore, di Giacomo Letizia presidente dell’Unitalsi di Aversa, di Nicasi Camps i Pinos scrittore catalano, del sottoscritto, di don Giovanni Di Napoli compagno di comunità nel Seminario di Posillipo, di Alfonso Di Meo amico fotografo e testimone oculare dell’omicidio, e di Mons. Raffaele Nogaro.

Seconda parte. Due ricordi


Mamma Jolanda. La dedica del libro a mamma Rosalia (morta un anno fa, l’ultimo giorno d’inverno!) mi ha fatto subito pensare a mamma Jolanda Di Tella e a suo marito Gennaro Diana, genitori di don Peppe, Marisa e Emilio, la famiglia di un piccolo agricoltore che insieme all’amore per la terra ha educato i figli all’onestà con la fatica del lavoro e di relazioni autentiche e genuine, senza ipocrisia. Proprio per questo, di fronte alle calunnie, all’isolamento, alle lettere anonime e alle minacce verso don Peppe e al fango gettato per anni sulla sua memoria destoricizzata e ricostruita con fantasia come uno slogan o uno spot televisivo per un’antimafia di facciata non solo dalla camorra, ma anche da magistrati, politici e gente di chiesa … mamma Jolanda spesso ripeteva tra le lacrime: «Me l’hanno ammazzato due volte!».


Il terremoto dell’80. Quel 23 novembre dell’ultimo anno di formazione 1980-81, il quinto per Peppino e i suoi compagni, mi aveva chiesto di andare con lui e un gruppo scouts di Aversa all’uscita di fine settimana in quel di Nola. Avevamo vissuto una intensa veglia di preghiera, in settimana avevamo anche celebrato il sacramento della riconciliazione, ma tornando quella domenica dopo pranzo rimanemmo colpiti e impressionati dal colore cupo del sole circondato e in parte coperto da un’aureola densa e particolare tanto che lo si poteva guardare. Ci sembrò strano, ma … nessun commento. Arrivati a Posillipo, scesi nella chiesa di San Luigi per l’Eucaristia dei primi voti di tre

scolastici (studenti gesuiti) che conoscevo bene e dopo risalii in camera e mi misi a leggere un commento al IV canto del Servo sofferente di Is 53 riprendendo la preparazione per il corso sui profeti. Verso le 19,34 circa percepii un gran vociare e uscii nel corridoio per rimproverare i seminaristi e invitarli a smettere. Ma non c’era nessuno, erano scappati tutti giù nel piazzale da dove mi gridarono: “cretino, vieni giù. È il terremoto!”. Scesi giù anch’io. Appena cominciarono ad arrivare notizie anche se confuse, ci organizzammo con qualche coperta e del caffè e tè caldo e subito partimmo: alcuni verso Fuorigrotta dove avevamo sentito del crollo dello Sferisterio, altri verso via Stadera dove erano crollati dei palazzi e altri ancora verso P.za del Plebiscito dove si era riversata tanta gente fuggita dalle case … Quella notte non si dormì … La mattina dopo, con Peppe alla guida partimmo e, nonostante la difficoltà di strade sconnesse, arrivammo a Muro Lucano per prendere la mamma di Salvatore, un nostro compagno, con quel poco che era riuscita a portare giù nel campo sportivo dove si erano rifugiati … eravamo a una trentina di chilometri dall’epicentro, vicino Conza. La settimana successiva, com’era previsto, ci trasferimmo nella Solitudine di Piedimonte Matese per gli ES e il terzo giorno avemmo anche il regalo di una bella nevicata! Eravamo nella Novena dell’Immacolata e, alcuni giorni dopo, il 13 dicembre, tornammo in Lucania a Cirigliano (MT) dove uno di noi Leonardo Verre (proveniente dal Seminario di Salerno chiuso qualche anno prima), fu ordinato sacerdote.
Peppino tornò in Irpinia nelle vacanze di Natale, e insieme ad alcuni compagni si organizzarono per andare a dare una mano tra le baracche degli sfollati in una settimana ricavata tra la sessione di esami e l’inizio del secondo semestre. Quel terremoto fece 2.419 morti, 8.848 feriti e 280.000 sfollati. Per Peppino fu l’esperienza determinante nell’anno conclusivo della sua formazione. Questo è il contesto in cui maturò e poi scrisse il Profilo vocazionale e la tesina per il baccalaureato Mazzolari: profeta obbediente.

Conclusione


Permettetemi di chiudere questa presentazione con le parole che concludono la mia testimonianza in questo libro:

Guardati bene dal dimenticare le cose che hai visto» (Dt 4,9). La memoria grata ci aiuti a continuare, ciascuno per la sua parte, la testimonianza profetica della nostra vocazione battesimale. Animati dalla fiducia e dalla speranza che «dal seme che muore fiorisce una messe nuova di giustizia e di pace» (epitaffio sulla tomba di don Peppe), continueremo a lottare contro tutte le mafie e contro ogni forma di violenza, per vivere da fratelli nella casa comune, realizzando il sogno di Dio e la vocazione dell’Uomo, sulla via della giustizia e della pace.

Grazie!