ARTURO FORMOLA – LA PACE NON È MAI SOLO ASSENZA DI GUERRA

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Dopo l’atroce attacco ai civili da parte di Hamas, gruppo politico e religioso che governa la Striscia di Gaza dal 2007 in seguito alle elezioni legislative del 2006 e alla battaglia di Gaza del 2007 tra Fatah e Hamas, è spietata l’analisi che fa il sociologo Marco Lombardi, affermando che «le conseguenze che potrebbe avere, questa guerra è molto più rischiosa di quella tra Russia e Ucraina: l’attacco da parte di Hamas e la risposta militare di Israele, sono un passo concreto verso una terza guerra mondiale, di fatto già in corso, combattuta in maniera tradizionale». Purtroppo da decenni continuano a parlare solo le armi, in quei territori già provati dalla sofferenza di un popolo a cui non è riconosciuto alcun diritto, con una propria storia ed identità. 

Era prevedibile che il governo di destra di Israele, guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu, rispondesse all’offensiva promettendo la distruzione della Striscia di Gaza all’enclave palestinese, l’interruzione della fornitura di gas, acqua e carburante. Tutto ciò si sta realizzando. I cittadini sono rimasti senza corrente elettrica, i palazzi sono stati ridotti a cumuli di macerie dai missili israeliani, il cibo scarseggia e l’acqua manca. Gaza è una lingua di terra lunga circa 41 chilometri e larga da 6 a 12 km e si trova tra Israele ed Egitto, lungo la costa orientale del Mar Mediterraneo. È parte integrante dei territori palestinesi ma è diventata un campo di battaglia a causa delle rivendicazioni territoriali e politiche.

Il dato più preoccupante è costituito dalla grande povertà e dall’elevato tasso di disoccupazione che si registrano in quel territorio. La popolazione della Striscia di Gaza è composta da una varietà di gruppi etnici e religiosi ma la stragrande maggioranza è di origine palestinese, principalmente di fede musulmana. C’è anche una piccola minoranza di cristiani. La densità di popolazione è molto elevata e gli abitanti affrontano sfide significative che sono il risultato di decenni di conflitti e tensioni politiche. Secondo l’ufficio centrale di statistica palestinese, circa il 56% dei palestinesi di Gaza soffre di povertà e la disoccupazione giovanile è pari al 63%. Più del 60% dei palestinesi a Gaza sono rifugiati, espulsi nel 1948 da altre parti della Palestina che sono poi confluite nello Stato di Israele. Vengono segnalati spesso anche le violazioni dei diritti umani, come arresti arbitrari, detenzioni, torture e restrizioni alla libertà di espressione.

La pace non è solo assenza di guerra

In questi anni è cambiata non solo l’idea di guerra, è cambiata anche quella di pace e credo sia utile fare una distinzione tra pace positiva e pace negativa con le relative differenze. 

La differenza principale è che non basta l’assenza di violenza per parlare di pace. Serve il rispetto di molti fattori che, se lasciati a loro stessi, generano conflitti. Fattori come il buon governo, un basso livello di corruzione, la libertà di espressione, buone condizioni di lavoro, equa distribuzione delle risorse, rispetto dei diritti e delle opinioni altrui, buone relazioni con i vicini, dopo decenni di conflitto nel Medio Oriente, sono inesistenti ancora oggi, soprattutto nella parte palestinese. La responsabilità però non può essere solo attribuita ad Hamas ma a tutta la comunità internazionale. 

Il sociologo statunitense Johan Galtung è uno dei teorici della pace positiva. Figlio di immigrati norvegesi, ha deciso di dedicarsi alla prevenzione delle guerre a partire dalla triste esperienza del padre. Questi, infatti, sorvolando sul fatto che fossero nemici e invasori, aveva prestato soccorso ad alcuni soldati nazisti rimasti feriti in un incidente. Ciò nonostante, era stato comunque internato in un campo di concentramento. Galtung ha dedicato la sua vita a studiare la guerra come una malattia, convinto che l’epidemia si possa fermare lavorando sulle cause e non solo sugli effetti. Si può lavorare sulla riconciliazione, cioè curare gli effetti della violenza passata. È fondamentale, soprattutto nel nostro tempo e nella società dell’informazione, anche attraverso i mezzi di comunicazione tradizionali e i social media, parlare ed educare alla pace, costruire azioni comuni per prevenire violenze future. L’impegno di alcune Diocesi nell’istituire scuole di educazione alla pace, ha favorito il dialogo non solo tra cristiani e altre culture, ma tra gli stessi credenti, i quali non sempre riconoscono la pace come bene da coltivare e custodire. 

Gli Stati dovrebbero costruire la pace positiva, impegnandosi con determinazione a far funzionare le Nazioni Unite e le altre legittime istituzioni multilaterali; disarmare ed educare al rispetto dei diritti umani e formare il personale militare per le funzioni della pace positiva; istituire il Servizio civile di pace in conformità con la Raccomandazione del Parlamento Europeo del 10 Febbraio 1999 «sull’istituzione di un corpo civile di pace europeo»; non ospitare basi militari straniere, in particolare quelle il cui uso è contrario alla Carta delle Nazioni Unite e al vigente Diritto internazionale. 

Per poter attuare la pace positiva, anche l’Unione Europea gioca un ruolo fondamentale. Il vecchio e stanco continente rivendica le radici cristiane della propria Costituzione per poi sostenere Stati che violano i diritti di altri popoli, ricorrendo alla potenza dei missili e delle bombe per annientarli. Oggi, abbiamo bisogno di vere istituzioni democratiche che impegnano tutte le loro energie per educare e formare le nuove generazioni al rispetto dell’altro, al rispetto della propria storia e della propria identità. La diversità, solo in questo modo, può diventare ricchezza per l’altro e non paura.

Alcuni testimoni cristiani, vissuti nel secolo scorso, ci aiutano a riflettere, attraverso la loro vita, sull’essenzialità del messaggio di Cristo, fondato sulla giustizia e la pace tra gli uomini.

Da Mazzolari a Milani

Don Primo Mazzolari, secondo Ernesto Balducci, rimane una figura unica nella storia del cattolicesimo del XX secolo, l’unico vero “profeta” del Vaticano II, che abbia avuto l’Italia di questo secolo. Nel suo opuscolo, Tu non uccidere del 1955, dichiara che «La pace è un bene universale, indivisibile: dono e guadagno degli uomini di buona volontà…Per questo noi testimonieremo, finché avremo voce, per la pace cristiana. E quando non avremo più voce, testimonierà il nostro silenzio o la nostra morte, poiché noi cristiani crediamo in una rivoluzione che preferisce il morire al far morire». La lezione di don Primo resta attuale: l’educazione alla pace resta l’impegno principale per i cristiani e se la pace è un bene universale, indivisibile, dono e guadagno degli uomini di buona volontà, cadono le distinzioni tra guerre giuste e ingiuste, difensive e preventive, reazionarie e rivoluzionarie. Ogni guerra è fratricidio, oltraggio all’uomo e di conseguenza a Dio. Per questo motivo, propone don Primo, i cristiani devono accettare la «stoltezza cristiana» a costo di parere fuori della storia, renderne pubblica testimonianza, accettare solo quei mezzi di fare la pace che non negano la pace, creare un movimento di resistenza cristiana alla guerra, rifiutando l’obbedienza a quegli ordini, leggi o costituzioni che contrastano con la coscienza di chi deve preferire il comandamento di Dio a quello dell’uomo. Don Primo, durante il primo conflitto mondiale (1914-1918), era stato cappellano militare e quella esperienza lo aveva segnato profondamente. Il cristiano deve essere uomo di pace e non in pace, le sue scelte devono essere sempre orientate per la costruzione di una società fondata sulla giustizia. 

 L’altra grande figura del Novecento è don Lorenzo Milani. Del sacerdote fiorentino prendo in esame la Lettera ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell’11 Febbraio 1965. Rivolgendosi ai cappellani, il priore di Barbiana scrive: «se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gi uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri […] le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto». Il riferimento all’articolo 11 della Costituzione è fondamentale per rispondere alle accuse dei cappellani nei confronti degli obiettori di coscienza. Nel dire che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri, significa che non la si vuole, non la si accetta e non la si sente propria. L’educazione alla pace, proprio per non creare conflitti e disuguaglianza, dovrebbe essere l’impegno di ogni uomo e soprattutto dei cristiani.  Quanti cristiani, o che si ritengono tali oggi, hanno il coraggio di ascoltare la propria coscienza? Quanti realmente rifiutano ogni forma di violenza? Quanti sono disposti a costruire una società di pace?