di Arturo Formola e Salvatore Saggiomo
La recente circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, firmata dal Direttore Generale Ernesto Napolillo, introduce nuove disposizioni sulle autorizzazioni per eventi educativi, culturali e ricreativi negli istituti penitenziari. Sebbene il documento si presenti come un chiarimento tecnico, esso solleva interrogativi profondi sul rapporto tra istituzione penitenziaria, trattamento rieducativo e autonomia territoriale. La circolare accentua la centralizzazione delle autorizzazioni per gli istituti a gestione dipartimentale (Alta Sicurezza, Collaboratori di Giustizia, 41-bis), estendendo il controllo anche su iniziative rivolte a detenuti di Media Sicurezza presenti negli stessi istituti. Questa estensione appare come una forma di “contagio amministrativo”, dove la presenza di circuiti ad alta sorveglianza impone vincoli anche a contesti meno critici. Dal punto di vista sociologico, tale scelta riflette una logica securitaria che tende a uniformare il trattamento penitenziario secondo criteri di rischio, piuttosto che di bisogno. Il rischio diventa il filtro dominante, oscurando la pluralità dei profili detenuti e riducendo lo spazio per progettualità differenziate. La distinzione tra competenze della Direzione Generale e dei Provveditorati Regionali viene ribadita, ma con una clausola ambigua: in caso di “situazioni complesse e/o profili di incertezza”, è richiesto un coinvolgimento del “Superiore Ufficio”. Questa formula, non definita operativamente, rischia di generare un clima di incertezza interpretativa e di deresponsabilizzazione locale. In termini di governance penitenziaria, si assiste a una tensione tra centro e periferia, dove la fiducia nei territori è condizionata da una logica di controllo verticale. Il rischio è che le Direzioni e i Provveditorati si trasformino in meri esecutori, privati della capacità di valutare e promuovere iniziative coerenti con il contesto locale. La circolare impone che l’organizzazione degli eventi rimanga “sempre in capo alle Direzioni”, evitando esternalizzazioni. Sebbene questa disposizione intenda garantire il presidio istituzionale, essa può tradursi in una chiusura verso le comunità esterne, le associazioni e gli enti del terzo settore, che spesso rappresentano il cuore pulsante delle attività trattamentali.
La cultura, in questo quadro, rischia di essere trattata come una concessione amministrativa, soggetta a filtri burocratici e a logiche di autorizzazione, piuttosto che come un diritto fondamentale del detenuto. Si affievolisce così la dimensione relazionale e trasformativa del trattamento, che dovrebbe fondarsi sull’incontro tra interno ed esterno, tra istituzione e società. La circolare ci invita a riflettere su quale modello di trattamento penitenziario vogliamo promuovere. Un modello centrato sul controllo e sulla gerarchia, o uno fondato sulla fiducia, sull’autonomia e sulla partecipazione? La sfida è costruire una pedagogia penitenziaria che non si limiti a gestire il rischio, ma che sappia valorizzare la dignità, la cultura e la speranza.