ESPRESSIONI DI RELIGIOSITÀ POPOLARE NELLA CULTURA PARTENOPEA

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Le edicole votive di Napoli, tra storia, fede e tradizione popolare

di Nicola Palma

Le edicole votive di Napoli sono molto più di semplici ornamenti urbani. Sono il frutto di una complessa intersezione tra fede, arte e cultura popolare, che affonda le sue radici in un passato remoto e si proietta nel presente con una vitalità sorprendente. Queste piccole opere d’arte, frutto dell’espressione artistica e devozionale di generazioni di napoletani, rappresentano un microcosmo in cui si riflettono le aspirazioni, le paure, e le speranze di un intero popolo. 

Le edicole sacre sono parte integrante del tessuto urbano di Napoli. Sono presenti ovunque, dai quartieri più popolari ai centri storici, e fanno parte della quotidianità dei napoletani. Accendere una candela, recitare una preghiera, lasciare un ex voto: questi sono gesti semplici ma carichi di significato, che si ripetono da secoli. Esse sono luoghi dove la fede si fa esperienza concreta, dove il sacro si intreccia con la vita di ogni giorno. In esse, l’estro creativo del popolo partenopeo ha trovato la sua massima espressione, dando vita a un patrimonio artistico e culturale unico nel suo genere. Tutto questo nasce dalla Religiosità del popolo, che possiede da sempre, fin dalla sua creazione, il desiderio innato di: vedere, toccare, sentire la divinità. La Religiosità popolare rappresenta un fenomeno antico quanto la storia della religione. Limitandoci all’ambito del cattolicesimo, si può dire che il fenomeno della religiosità popolare concerne tutta quella serie di pratiche che vanno dai pellegrinaggi ai santuari alle feste patronali, le diverse forme di devozione fino a forme di benedizione, alle feste di ringraziamento e al fenomeno degli ex voto. Pratiche che si presentano fortemente radicate nell’anima della popolazione. Un fenomeno che lascia trasparire, in filigrana una concezione socio-religiosa del mondo e della vita non sempre corrispondente a quella della Chiesa istituita, sgorgando da un inconscio collettivo che tocca più il sentimento che la ragione e andando spesso oltre i dogmi e la ritualità ufficiale.

Con l’espressione religiosità popolare si intende la religiosità vissuta, sentita, praticata dal popolo come un’esperienza che sgorga da una viva coscienza del sacro, in grado di coinvolgere i dinamismi profondi della gente (paure, gioie, vita di relazione e così via) e dove la corporeità e le manifestazioni visibili assumono un ruolo di primo piano. Un simile concetto di «religiosità» si distingue, almeno oggettivamente, sia dal folklore religioso (anche se spesso coincide con esso), sia dalla superstizione e dalla magia, anche se talvolta elementi di tale natura possono infiltrarsi.

Queste espressioni religiose non sono esenti da critiche: alcuni ritengono che possa portare a forme di superstizione o a pratiche poco ortodosse della fede; altri le ritengono forme di espressione spirituale che aiutano le persone comuni a trovare un senso di appartenenza in un mondo sempre più secolarizzato.

Nasce spontaneo chiedersi come vada affrontata la «tensione» che nasce tra «liturgia e pietà popolare»,come viene definita dal Magistero della Chiesa. La liturgia, senza alcun’ombra di dubbio, possiede sempre il suo primato, in quanto in essa si contempla la bellezza del mistero di Dio. Tuttavia, come ci ricorda il Concilio Vaticano II: «la vita spirituale non si esaurisce nella partecipazione alla sola liturgia»[1].

Il fedele di ogni tempo ha bisogno di alimentare la sua fede con pratiche che alimentano la vita spirituale, ovvero «i pii esercizi del popolo cristiano»[2]

D’altronde, questo «agire» nel manifestare il proprio sentimento religioso non deve essere libero da ogni norma, piuttosto l’ordine di questi «pii esercizi» deve essere «in armonia» con la liturgia, devono ispirarsi a quest’ultima e devono condurre il popolo cristiano verso Dio.

Dunque, potremmo definire la «pietà popolare» come l’insieme delle manifestazioni che esprimono una relazione con il divino, che nascono in sintonia con la cultura di un popolo e ne esprimono l’identità.

Il confine tra sacro e profano nelle manifestazioni del popolo è, a volte, così sottile da finire col diventare unicamente profano con estrema facilità. In alcuni casi si verifica che questi due aggettivi antitetici tra loro possano collimare in un mix perfetto di equilibrio. In modo particolare, nella città di Napoli i due aspetti del sacro e profano si intrecciano nella vita di tutti i giorni: dalle feste religiose alle processioni, dalle edicole votive poste lungo i suoi caratteristici vicoletti, al linguaggio verbale e non verbale del popolo, lo stile di vita, le tradizioni degli abitanti. Ogni pietra sembra plasmata dalla sacralità di San Gennaro e dalla magia del mito di Partenope.

I caratteri del sacro e del profano appartengono da sempre alla cultura napoletana e sono elementi identitari del popolo, nell’insieme di critiche e controversie che la circondano.

Nel capoluogo campano non c’è nulla che non sia stato contaminato dal sacro. Lo si respira nella sua aria, negli sguardi dei passanti, per le vie del centro storico, dove signoreggiano altari o edicole votive a protezione e devozione del popolo.

Non lontano dal sacro, però, trova spazio il profano nelle ritualità scaramantiche o talvolta magiche, che appartengono alla tradizione storica del popolo.

Le componenti di questo dualismo corrispondono anche alle due coordinate culturali su cui la città si è sviluppata: ad oggi, Napoli rappresenta una delle poche città che abbraccia con la stessa dedizione il credo cattolico e quello per l’occultismo, a volte, senza distinzione alcuna.

Se pur con non poche incongruenze, questo binomio ha contribuito negli anni ad alimentare la spiritualità di un popolo che vive di sacralità e occultismo, dei quali beneficia anche la sua economia, sostenuta dal forte turismo generato dal suo essere una città «spiritualmente profana».

Nella cultura partenopea, la presenza delle icone votive è un segno tangibile della profonda religiosità che permea la vita di ogni individuo: le persone si rivolgono a queste immagini sacre con fiducia e speranza, chiedendo protezione e conforto nelle difficoltà della vita quotidiana.

Queste immagini sacre sono custodi di tradizioni secolari e di valori profondamente radicati, che continuano a influenzare e guidare la vita dei suoi abitanti. Le icone votive non sono solo oggetti di devozione, ma rappresentano anche la memoria collettiva di eventi miracolosi o grazie ricevute attraverso l’intercessione divina. Ogni immagine sacra è legata a una storia particolare che viene tramandata di generazione in generazione, rafforzando il legame della comunità con la propria fede.

Questo tipo di iconografia nasce dall’intuizione di padre Gregorio Maria Rocco che, a metà dell’700, suggerì alla corte borbonica di illuminare le strade di Napoli per contrastare il banditismo, senza pesare sulle casse del Regno. Per questo Padre Rocco decise di puntare sul sentimento popolare e invitò i cittadini a costruire ad ogni angolo della strada delle edicole votive che potessero proteggerli. Venne eletto il popolo stesso a custode delle edicole, tenendo sempre acceso dinanzi un lumino, così da illuminare le strade stesse.

È evidente come il sentimento religioso, in modo particolare nella cultura partenopea, sia stato anche fenomeno di aggregazione sociale. E di come sia sfociato, grazie all’estro artistico di questo popolo, in forme architettoniche di rappresentanza come le «edicole votive». Oggi diventate presidi di protezione spirituale di nuclei familiari, gruppi o interi quartieri.

Talvolta questi altarini nel capoluogo campano sono serviti da strumenti di protezione della criminalità organizzata e persino depositi di armi e sostante stupefacenti, come indica il Rapporto della Direzione Investigativa dell’Antimafia del 2022.

1.   Ermeneutica della Religiosità Popolare: Significato e distinzioni

Per molto tempo è stata considerata residuale, in bilico come una zattera in mezzo ad un grosso mare in tempesta, continuando a mantenersi a galla tra le onde travolgenti del secolarismo. 

Nonostante le previsioni poco rassicuranti questo fenomeno religioso, per molti non avrebbe solcato il nuovo millennio, affondata dal grosso carico teologico prodotto dal Concilio Ecumenico Vaticano II; questa zattera chiamata “pietà popolare” ha continuato a restare a galla, senza frantumarsi contro le scogliere o arenarsi lungo le coste isolate, sapendo resistere da chi voleva sommergerla, aspettando il momento giusto per navigare a vele spiegate[3]

La pietà popolare così come la denomina la Chiesa, o religiosità popolare così come viene spesso indicata, a dispetto dei prognostici fatti sulla sua durata in vita come fenomeno, ha sorpreso tutti, presentandosi oggi più forte che mai, ringiovanita, sempre vigorosa e capace di coinvolgere le masse, in modo particolare le fasce giovanili, che affascinati da queste espressioni religiose, si lasciano coinvolgere a pieno titolo.

Con le sue luci e ombre la religiosità popolare ha accompagnato la vita della Chiesa sin dalla sua origine; andando a ritroso nella storia, possiamo rintracciare forme primordiali tra i primi cristiani e la loro venerazione delle reliquie appartenenti ai martiri, oppure verso gli oggetti che in qualche modo simboleggiavano il loro martirio[4]

Per poter cercare di rintracciare l’origine della devozione popolare, nella sua manifestazione pubblica, dovremmo dirigere le nostre ricerche in un tempo molto passato, lì dove la Chiesa, divenuta religione di Stato, iniziò a purificare le pratiche pagane, i riti legati alla magia, al ciclo della terra, quei rituali popolari e carichi di significato, convertendo e convergendo tutto nella liturgia. 

Il tentativo di purificare e in alcuni casi di eliminare, ha portato la Chiesa ad assorbire alcune pratiche, che nel tempo si sono inscritte nella memoria collettiva e sono divenute, dopo un processo di conversione, pratiche di religiosità, condivise da più persone, divenendo popolari.

Da quanto elencato in precedenza, potrebbe risultare che liturgia e religiosità popolare, sono in continuo contrasto tra loro, ma invece più di quanto si pensi, entrambi con forme diverse conducono alla stessa verità di fede, ovviamente come in ogni cosa, qualsiasi eccesso o distorsione può portare a forme ed usi devianti.

Tuttavia questa tensione con la liturgia, per dirla meglio, del Magistero e della Religiosità Popolare, non è stata esente da scontri, l’allora Cardinale Bergoglio, oggi Papa Francesco, dirà in merito alla questione:

«Quando vuoi sapere che cosa crede la madre Chiesa, rivolgiti al magistero, perché esso ha l’incarico di insegnarlo in maniera infallibile; ma quando vuoi sapere come crede la Chiesa, rivolgiti al popolo fedele»[5].

Queste due prospettive di fede o di modi di vivere: Magistero e Religiosità Popolare, hanno camminato a lungo e continueranno a camminare insieme, malgrado le tensioni, i punti di conflitto e le difficoltà incontrate. Insieme si sono arricchite contemporaneamente, entrambe con un ruolo diverso dal fine unificato, quello di tendere a Dio. 

In questa logica potremo affermare che il Magistero ha insegnato al popolo le verità di fede dottrinali, a sua volta il popolo di Dio, attraverso la Religiosità Popolare ha insegnato al Magistero a viverle.

Intanto a partire dal grande Concilio Vaticano II, la Chiesa rinnovata dal Concilio, che cercava, nel tentativo di apparire contemporanea, il superamento di tutte quelle pratiche religiose che non le permettevano di risultare al passo con i tempi, perché appesantita da forme religiose con al proprio interno, i retaggi di un tempo lontano, ovvero tutte quelle pratiche popolari, legate al tempo e ai tempi.

Uno scenario drammatico che vede il popolo di Dio, diviso a metà, una frattura così evidente, provocata non tanto dal fronteggiarsi tra le due parti (rinnovatori e tradizionalisti), ma dal fatto che il popolo, da sempre legato alle proprie pratiche, si trovò spaesato, senza indicazioni, tra due fuochi, con il rischio di perdere la fede[6].

In questo contesto così complesso e difficile, diviso in due da chi vive a diverse forme l’esperienza di fede, si colloca uno dei documenti più importanti, che costituisce lo spartiacque fondamentale in questo mare agitato tra la fede del popolo e della Chiesa: l’Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi.

Redatta nel 1975 pubblicata da Paolo VI, vuole indicare con ordine gli orizzonti comuni dell’evangelizzazione a partire dalla luce del Concilio Vaticano II, dedicando per la prima volta, alcune sezioni al fenomeno della religiosità popolare:

«Qui noi tocchiamo un aspetto dell’evangelizzazione che non può lasciare insensibili. Vogliamo parlare di quella realtà che si designa spesso oggi col termine di religiosità popolare. Sia nelle regioni in cui la Chiesa è impiantata da secoli, sia là dove essa è in via di essere impiantata, si trovano presso il popolo espressioni particolari della ricerca di Dio e della fede. Per lungo tempo considerate meno pure, talvolta disprezzate, queste espressioni formano oggi un po’ dappertutto l’oggetto di una riscoperta. I Vescovi ne hanno approfondito il significato, nel corso del recente Sinodo, con un realismo pastorale e uno zelo notevoli. La religiosità popolare, si può dire, ha certamente i suoi limiti. È frequentemente aperta alla penetrazione di molte deformazioni della religione, anzi di superstizioni. Resta spesso a livello di manifestazioni cultuali senza impegnare un’autentica adesione di fede. Può anche portare alla formazione di sètte e mettere in pericolo la vera comunità ecclesiale. Ma se è ben orientata, soprattutto mediante una pedagogia di evangelizzazione, è ricca di valori. Essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione. A motivo di questi aspetti, Noi la chiamiamo volentieri «pietà popolare», cioè religione del popolo, piuttosto che religiosità»[7].

In questa Esortazione Apostolica, scritta dopo un decennio dalla chiusura del grande Concilio da Paolo IV, viene sottolineata l’importanza e le potenzialità che le espressioni di fede posseggono. La Chiesa dopo numerosi dibattiti e scontri, riconosce l’importanza di tale pratiche come fondamento di fede per il popolo di Dio.

Questo nuovo scenario, non è da considerarsi semplicemente come un’azione tollerante da parte della Chiesa, bensì, vuole essere il suo primo tentativo di provare a convergere le pratiche religiose nella grande struttura liturgica della Chiesa pensata per il nuovo mondo.

Un’altra raccomandazione che il Pontefice consegna all’interno dell’enciclica è di chiamare queste manifestazioni «pietà popolare» e non più «religiosità popolare», una sostituzione che generò non poca confusione sull’argomento, ma a fare chiarezza arrivò il Direttorio sulla pietà popolare e la liturgia, che chiarì in modo inequivocabile la discussione asserendo che la religiosità popolare riguarda la dimensione religiosa universale, incisa nel cuore del popolo, mentre la pietà popolare ne costituisce la sua manifestazione pubblica o privata[8].

L’insieme di queste pratiche, pellegrinaggi, processioni, venerazioni, tradizioni, costituiscono una porta d’ingresso verso il sacro. Se degnamente vissute, quest’esperienze possono divenire esperienza mistica. 

L’opportunità concreta di entrare in contatto con il sacro, che si nasconde dietro queste manifestazioni viene totalmente dimenticata, abbandonata da chi riduce la pietà popolare a sole forme spettacolarizzanti di culto.

È molto più di balli e canti, poiché è capace di aprire finestre sul mondo del sacro, coinvolgendo pienamente l’uomo, sapendo in certi casi parlare al loro cuore, diventando così «religiosità mistica»

Non solo processioni o feste di piazza, ma la religiosità popolare o pietà popolare, oggi rappresenta una delle corsie preferenziali del popolo, che gli permettono di accedere al mistero di Dio, nel Figlio per mezzo dello Spirito Santo.

La Religiosità popolare per questo, spesso incorre in fuorvianti generalizzazioni e giudizi affrettati che la confinano a retaggio, di serie B, di poco conto. 

Allo stesso tempo, però, è doveroso sottolineare, che la Pietà Popolare, così come è denominata nei documenti ufficiali del Magistero, possa ancora oggi essere strumento che conforta e rafforza l’animo dell’individuo e al tempo stesso capace di generare processi di emancipazione, in grado di coinvolgere l’intera società civile.

La Religiosità popolare con la bellezza scenografica che mette in atto, con manifestazioni, processioni, canti e rituali, è in grado di coinvolgere una pluralità di persone, spesso interi quartieri, città o nazioni, intercettando anche fedi e credenze religiose sopite. 

Così facendo essa si configura come una nuova forma di evangelizzazione, capace di riavvicinare alcune categorie di fedeli, in particolare giovani, donne e quelle fasce più esposte al processo di secolarizzazione, favorendo un nuovo e rinnovato contatto con la fede.  

Nella sua semplicità potrà continuare ad instaurare un rapporto privilegiato con il divino, senza risultare appesantita da schemi e regole rigide, favorendo il protagonismo dei delusi e lontani.

Alla luce anche di alcuni documenti del Magistero risulta assolutamente chiaro che la pietà popolare non è da considerare un retaggio del passato ma un fenomeno vivo e capace di adattarsi al presente, che con la sua forza intrinseca, è parte identitaria del popolo fino a caratterizzare persino l’identità nazionale.

Proprio per questo motivo è doveroso, per comprenderla pienamente esaminarla partendo da quelle forme di religiosità appartenenti al sud del mondo, ovvero attraverso le edicole. Un fenomeno caratteristico e maggiormente diffuso nella città partenopea: le edicole votive come espressione della religiosità popolare del popolo napoletano. 

Potente e innovativa, seppur antica, con grandi capacità comunicative ed esperienziali, capace di porre cambiamenti radicali fino a trasformare la società, gli uomini e la vita di ognuno, la pietà popolare è davvero troppo importante per essere relegata a un fenomeno superficiale accettato dalla Chiesa: essa è parte viva della comunità ecclesiastica, essa è Chiesa, spazio privilegiato di incontro con Dio.

Nonostante il coinvolgimento del popolo e i molteplici benefici che essa può apportare all’individuo e alla comunità, tanti restano i rischi ed i pericoli che la religiosità popolare possiede intrinsecamente. Rischi che possono farla degenerare in espressioni devianti, danneggiando l’immagine della Chiesa fino a compromettere, in alcuni casi, l’integrità stessa della fede.  

Da sempre il popolo campano ha vissuto tra elementi sacri e profani, trainando, ancora oggi, forme e rituali magici come elementi di superstizione.

Dalle sue viscere al suo cielo, la città della sirena Partenope è eternamente esoterica, ma questo non ostacola in alcun modo il bisogno popolare di vivere e celebrare il sacro. 

L’equilibro, a volte instabile, tra il sacro ed il profano nella città campana la rendono unica nel suo genere, alimentando notevolmente il suo turismo e favorendo, in questo modo, l’economia della città.

Le edicole votive, da sempre, sono testimonianza di fede e memoria storica della città e ancora oggi raccontano eventi legati alla storia popolare, oltre a essere anche architettonicamente e artisticamente beni di elevato valore culturale diffusi sul territorio. 

Spesso divengono oggetto di strumentalizzazione da parte della criminalità organizzata, la quale se ne appropria rendendole altarini di affiliati morti o nascondigli di armi e sostanze stupefacenti. Sinonimo di protezione sacra, possedere elementi legati al culto per questi clan equivale ad accrescere la propria legittimazione sociale, come dimostrazione del loro potere e della loro forza.

In conclusione, la Religiosità Popolare rappresenta un tesoro nascosto, poco considerato, che deve assolutamente essere custodito e preservato perché ha in sé una vera forza evangelizzatrice, attraverso la quale lo Spirito Santo soffia e continua ad agire nella vita delle persone. 

Non solo fede, la religiosità popolare è anche un processo socio-culturale che guida la collettività e il singolo verso l’emancipazione, facendo sempre attenzione al persistente rischio di separare la dimensione sacra dalla sua manifestazione, con il conseguente pericolo di confinarlo a puro spettacolo culturale.

Per questo motivo la religiosità popolare costituisce una sfida non solo per la Chiesa, ma anche per la società civile e le sue istituzioni. Perdere l’occasione di preservarla e custodirla equivale, per la prima, a perdere l’occasione di intercettare categorie di fedeli lontani, per la seconda, invece, a perdere l’occasione di saper leggere le dinamiche sociali e poter offrire strumenti di elevazione culturale.

Da come il popolo prega, venera e manifesta il sacro pubblicamente, si evince la sua identità ed i rapporti di collaborazione che gli individui instaurano tra di loro.

La pietà popolare non è una reliquia del passato, è molto di più di uno spettacolo culturale o folkloristico, essa è un «luogo teologico» dentro il quale l’uomo comunica con gli altri e con Dio.

2.   Forma di riscatto sociale nel sud del mondo?

La religiosità popolare è molto di più di quanto si possa pensare o concettualizzare, essa non è solo luogo di incontro tra l’uomo e il divino, ma rappresenta molto di più. Dire oggi, religiosità popolare o pietà popolare, così come la Chiesa ci invita a chiamarla, non significa parlare solo di processioni, quadri e pellegrinaggi, ma significa raccontare la dura e difficile azione di umanizzare[9] la società, non solo a livello spirituale, ma anche economico-sociale[10]

Ridurre il fenomeno religioso al solo dato di fede, vorrebbe dire ignorare tutta la sua forza dinamica e organica, che coinvolge in un cambiamento radicale, intere città, regioni o nazioni.

È molto di più di quanto ci raccontano, basti pensare che nel sud del mondo, nei paesi poco sviluppati, la pietà popolare ha ispirato l’azione sociale e la resistenza contro le ingiustizie sociali dei regimi totalitari.

Proprio in questa prospettiva è doveroso domandarsi se il sentimento popolare legato al culto, alla celebrazione, possa veramente servire al riscatto morale di intere popolazioni, che ancora oggi vivono da ultimi, come scarto della società.

Nonostante sia un fenomeno molto complesso, la religiosità popolare nel sud del mondo, può offrire sollievo e speranza a chi vive in condizioni di povertà o addirittura di oppressione, perché fornisce un forte senso di comunanza ed appartenenza.

In ogni epoca storica, gli uomini hanno sempre cercato di sublimare con credenze e pratiche di tipo religioso le richieste d’aiuto. Questo bisogno innato, è da sempre la risposta dell’uomo di fronte ai problemi del quotidiano. Dalle primitive forme religiose dell’uomo a quelle più complesse e strutturate.  “Dal fulmine al miracolo”, le risposte sembrano essere sempre collegate al dato di fede[11].

Il filosofo, economista tedesco Karl Marx, riconduce questo esito alla consolazione che la religione offre all’uomo affaticato e stanco dai problemi del vivere quotidiano.

Da questo punto di vista, potremmo tracciare un parallelismo tra questa funzione del marxismo e la religione, quando condividono in linea di massima l’idea di operare per la salvezza dell’umanità, di cercare di sollevare l’uomo dalla sua povertà e condizione di miseria, non solo spiritualmente ma di restituire libertà e dignità, dal senso di alienazione. Potremmo trovare anche delle differenze di ordine «temporale» tra le due, ovvero: mentre la fede, in particolare il cristianesimo pone una liberazione ultima, dopo la morte con la vita eterna, il marxismo vuole la liberazione dell’uomo in questa vita, un riscatto terreno, non oltre[12].

Il cristianesimo (con il tempo) ha saputo rispondere anche ai problemi attuali, cercando di rispondere al qui ed ora del popolo, non al domani. Infatti con il tempo abbiamo assistito a forme teologiche che, avendo udito il grido del popolo, in questa vita, hanno sviluppato una teologia della liberazione, che è stata protagonista in modo particolare nelle aree  latinoamericane, di lotte sociali e politiche, in regimi autoritari e dittatoriali[13]

La religione quindi può svolgere ancora un ruolo importante nella società attuale? La risposta sicuramente potrebbe essere affermativa, se osserviamo attentamente alcuni contesti specifici nel quale essa vive ed entra in contatto con la società.

In alcune società occidentali la religione occupa uno spazio nettamente inferiore rispetto al peso che essa detiene in alcuni paesi orientali, dove è moto più influente tanto da essere usata come strumento di rivolta o di rivoluzioni, basti pensare al mondo Islamico dove il Corano è la fonte di legge primaria[14]

Dovremmo porre attenzione però a non assolutizzare, non è solo motivo di guerre religiose o un grande libro legislativo, la religione è capace ancora oggi di offrire, come accade in alcuni contesti del mondo una risorsa ai   bisogni impellenti del genere umano. 

Mentre il dilagare incessante della secolarizzazione muove le menti critiche dei pensatori ad attaccare il mondo cristiano, contro la gerarchia ecclesiastica o sull’esistenza di Dio e del suo bisogno per il genere umano, alcune realtà ritrovano nei valori della fede, in modo particolare nella sua forza evangelica, una fonte sapienziale per dare una svolta alla propria vita[15].

Per questo la Chiesa, investita di questa grande potenza, ha iniziato a solcare nuovi confini, ampliando le proprie conoscenze e vie di salvezza, per poter elevare l’uomo non solo spiritualmente ma anche nella sua dignità troppo spesso calpestata.

Un primo punto di svolta lo registriamo durante gli anni del grande Concilio Vaticano II, un periodo segnato da grandi cambiamenti a livello mondiale per la Chiesa e per la società, che aveva da poco risollevato il proprio capo dalla ferocia della grande guerra. Il contributo fecondo dei padri conciliari ha generato, sicuramente in modo efficace una ventata di cambiamento e di speranza per tutti i credenti, ma in modo particolare per quelli ancora oppressi da regimi totalitari e dittatoriali.

Giovanni XXIII con il suo discorso inaugurale all’apertura del grande Concilio, consegna ai partecipanti tematiche urgenti e attuali, affermando il ruolo della Chiesa, con le sue nuove responsabilità: «In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri!»[16].

Le parole del Pontefice, al discorso inaugurale, vogliono trasmettere il desiderio di un papa che ha accolto il grido dei popoli oppressi, augurandosi che l’intero Concilio abbia la sensibilità di poter offrire nuove soluzioni. Sfortunatamente Giovanni XXIII dopo la prima sessione dei lavori conciliari muore, ma prima di morire consegna al mondo la sua ultima enciclica, che seppure non rientra nei documenti ufficiali del Concilio Vaticano, ne diviene per bellezza e tematiche attualissime parte integrale. Dal titolo Pacem in terris l’enciclica pubblicata l’11 aprile 1963, vuole sottolineare l’impegno che la Chiesa rinnovata intende assumere, nel ricordare a tutti gli uomini l’importanza della pace, della giustizia, nell’amore e nella libertà. 

In questa bellissima lettera apostolica, la volontà del Pontefice sembra rivolgersi a chi ancora non ha compreso ed assaporato l’importanza della pace, l’indomani della grande guerra, continuando ad essere generatore di violenza. Con queste bellissime parole ricorda l’urgenza di cambiare, rivolgendo il suo invito a tutti gli uomini di buona volontà:

«A tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale. Compito nobilissimo quale è quello di attuare la vera pace nell’ordine stabilito da Dio. Certo, coloro che prestano la loro opera alla ricomposizione dei rapporti della vita sociale secondo i criteri sopra accennati non sono molti; ad essi vada il nostro paterno apprezzamento, il nostro pressante invito a perseverare nella loro opera con slancio sempre rinnovato. E ci conforta la speranza che il loro numero aumenti, soprattutto fra i credenti. È un imperativo del dovere; è un’esigenza dell’amore. Ogni credente, in questo nostro mondo, deve essere una scintilla di luce, un centro di amore, un fermento vivificatore nella massa: e tanto più lo sarà, quanto più, nella intimità di sé stesso, vive in comunione con Dio»[17].

In questo scenario nuovo, iniziano a fiorire germogli rivoluzionari da parte del popolo, che spinti e sostenuti da valori cristiani, alzano il capo per fronteggiare l’oppressore, riacquistando la libertà. 

Il continente che si sentì maggiormente coinvolto in questa istanza di giustizia sociale fu l’America Latina, dove alla luce dei grandi moti di ripresa spirituale, sociale, economica, si avviarono processi di liberazione[18].

Proprio in quelle realtà così vicine alla grande America del nord che in quegli anni si ritrovava nel suo pieno boom economico e scientifico con i primi tentativi da parte della Nasa di portare il primo uomo sulla luna, verso il sud, il sud del mondo, intere comunità erano ancora sottoposte a condizioni di povertà e di dittatura.

In questo scenario, nel grande territorio Latinoamericano iniziarono a proliferare alcune comunità di base, ovvero gruppi religiosi autonomi, che sulla base della lettura della Bibbia, come fonte principale ed ispiratrice di queste realtà volevano promuovere ed iniziare processi di liberazione.

Seguendo questo fervore cattolico di rinnovamento grazie alle spinte provenienti dal basso, a distanza di pochi anni dalla chiusura del Concilio i vescovi latinoamericani si riunirono e formarono per la prima volta la Celam[19]. Da quel primo incontro nacque il primo congresso Medelinn in Colombia. Qui i vescovi si prefissarono di incarnare nella realtà subcontinentale le indicazioni pastorali appena partorite dal Concilio Vaticano II.

Cosa spinse i vescovi a riunirsi, non è da ricercarsi solo in questioni legate alla divulgazione dell’immenso Magistero scaturito dal Concilio, di affrontare temi ben più urgenti e preoccupanti come: le condizioni economiche del popolo e della povertà che deriva dalla disparità tra nord e sud. Si era giunti finalmente alla convinzione che per realizzare la liberazione del popolo dalle ingiustizie sociale era necessario che la Chiesa iniziasse ad entrare nella storia, così come Dio ha fatto con noi, con l’incarnazione del Figlio, poiché solo così la chiesa è in grado di collaborare alla realizzazione del disegno di Dio nella storia[20]

Tutto questo trova conferma nel pensiero teologico che ribadisce da sempre l’importanza di salvaguardare quel rapporto delicato ed essenziale tra Regno di Dio e dignità umana, poiché lavorare per il popolo oppresso significa allo stesso tempo lavorare per il Regno di Dio, in egual misura.

Per questo le intenzioni del Congresso a Medellin furono chiare: denunciare gli abusi, le ingiustizie, la diseguaglianza, il divario tra potenti e deboli, poiché tutto ciò contrasta con i valori di giustizia, pace e fede.

È doveroso ricordare che l’America Latina post Concilio Vaticano non poteva sicuramente contare sull’apporto degli Stati Uniti o delle altre potenze occidentali, che indifferenti osservarono come spettatori il declino della dignità umana. Il popolo Latinoamericano usò la spinta religiosa, per fondare il suo movimento liberatorio dal basso, dal popolo stanco ma non sconfitto, sviluppando così una fede al servizio del popolo, che accompagnasse e smuovesse le anime al cambiamento[21].

In questa prospettiva che si sviluppò grazie al contributo del sacerdote peruviano Gustavo Gutièrrez[22], la Teologia della liberazione, spiegata ampiamente in un suo testo diffuso fuori e dentro l’America Latina e tradotto in diverse lingue.

La teologia della Liberazione, seppure inizialmente molto criticata dalla Chiesa romana, riuscì senza nessun’ombra di dubbio, ad aiutare a restituire dignità umana e libertà, elevando l’uomo dalla sua miseria[23]. Ma non fu solo elevazione a carattere spirituale, ma anche sociale, grazie alla spinta religiosa molti popoli riuscirono a venir fuori da condizioni generati da governi oppressivi e dittatoriali.

Non solo dall’altra parte del mondo la religione può essere strumento di salvezza per il popolo, forse anche se non genera troppo rumore, possiamo scorgere anche altrove opere di evangelizzazione, messe in atto da molti sacerdoti capaci di attuare il cambiamento attraverso solo l’annuncio della fede, fino a stravolgere la vita delle persone.

Nella città di Napoli, molte trasformazioni le dobbiamo al coraggio di alcuni sacerdoti, che non hanno paura di lottare per il prossimo. È doveroso ricordare padre Alessandro Zanotelli, da tutti conosciuto come padre Alex, che vive ed opera nel difficile quartiere Sanità, aiutando ogni giorno con la sua presenza costante, le persone a rialzarsi dalle difficoltà e riacquistare fiducia.

A pochi metri da padre Alex, un’altra realtà guidata da Don Michele Madonna, un giovane prete parroco della comunità di Santa Maria di Montesanto, posta a ridosso dei quartieri Spagnoli, una zona di Napoli conosciuta da tutti per i tanti eventi di cronaca nera e per la forte presenza della criminalità organizzata.

Ex disc jockey, figlio del proprietario di una nota discoteca campana, ha saputo sfruttare due elementi fondamentali: la fede e la conoscenza del mondo giovanile, per operare il cambiamento nel suo quartiere.

Attraverso forme di religiosità popolare, quali: la musica[24], l’arte, lo sport e la preghiera, la sua comunità è diventata comunità di giovani, che alla luce della fede hanno convertito la loro vita, operando il loro riscatto sociale, in un quartiere che non offre più nulla, e la camorra predomina su ogni metro di strada.

Nell’agosto 2022, durante una delle iniziative di Don Michele, un «rave party cristiano» il sacerdote ha ricevuto una telefonata speciale, dall’altra parte del telefono Papa Francesco, che con il suo modo semplice di fare, si è complimentato per l’iniziativa e per la proficua azione pastorale che ha saputo scrivere per quel territorio[25]

Ad oggi la realtà ecclesiale di Santa Maria di Montesanto, è una delle più gremite di giovani. Qui alcuni di essi sono stati sottratti dall’accattivante proposta criminale del posto, ed oggi affollano quell’aula liturgica, dove prima il deserto consumava le panche in quella grandissima navata della parrocchia al centro di Napoli.

Attraverso il sentimento religioso, e le sue forme di pietà popolare, ha saputo coinvolgere tutti, innescando processi di rigenerazione[26].

Non sempre però le forme di religiosità popolare possono elevare la società, molto dipende dalla predisposizione dell’individuo e dal contesto sociale, se è pronto o meno a rispondere a quel grande processo rivoluzionario che è il Vangelo.

Se pur vero che ogni azione di religiosità popolare non può corrispondere sempre ad un riscatto sociale individuale o collettivo, è doveroso sottolineare che qualsiasi forma di religiosità o pietà popolare, seppure talvolta non in comunione con le disposizioni della Chiesa, è strumento di veicolo dello Spirito Santo. 

Sebbene molti hanno provato a contenerlo e tenerlo fermo, lo Spirito Santo soffia dove vuole, come vuole, e quando vuole, illuminando il cuore dell’uomo. Per questo non tutte le forme di pietà popolare sorte nei diversi e disparati contesti geografici generano flussi rivoluzionari di riscatto sociale, a differenza di alcuni, ma non per questo dobbiamo sopprimerli. Proprio per questo è doveroso ricordare che il fare di Dio non corrisponde a quello degli uomini.

3.   Le edicole votive: immagini di religiosità popolare

Sin dai tempi remoti era pratica comune disporre all’ingresso di ogni abitazione piccoli templi dedicati alle divinità protettrici della casa e della famiglia, chiamati i Lari e i Penati.

Eccezionali testimonianze di questa usanza sono state offerte dagli scavi di Ercolano e in modo particolare dalla grande area archeologica di Pompei, dove sono state riportare alla luce le più antiche tracce mai documentate di culti domestici.

Era di comune usanza dedicare vari spazi della casa, sia zone interne che perimetrali alla divinità. La scelta dello spazio ove collocare il sacrario, non era fatta a caso, ma in modo scrupoloso e attento, in quanto avrebbe dovuto soddisfare due funzioni principali: essere di comune accesso non solo ai familiari ma a quanti, solo di passaggio avrebbero voluto rendere omaggio alle divinità. Semplici pitture murali, sculture in terracotta o in bronzo, la scelta di cosa mettere e quanto esporre spettava alla famiglia.

Dallo studio di alcuni ritrovamenti nelle grandi aree archeologiche di Pompei e Ercolano, risulta evidente che le divinità non erano mai raffigurate da sole, ma ogni altarino possedeva il pantheon di divinità maggiori e minori.

Volendo rintracciare forme anteriori a quelle di epoca romana, potremmo notare che già nell’antica Grecia esisteva la consuetudine di innalzare agli dèi altarini privati, con l’immagine della divinità scolpita nel marmo, oggetto di venerazione e culto. Tale usanza fu tramandata insieme a tutto il bagaglio culturale nelle aree di espansione greca, in modo particolare nell’antica città di Neapolis.

Le manifestazioni della religiosità popolare di ogni tempo, rappresentano il bisogno più profondo dei fedeli di vedere, toccare sentire il sacro, specialmente nel Meridione l’immagine del sacro fornisce all’interlocutore una presenza reale, visibile e presente.

Nonostante la continua lotta di rendere il sacro immagine nei primi tre secoli del cristianesimo, poiché ricordava il passato paganesimo con le sue pratiche idolatriche, i cristiani iniziarono a sviluppare alcune immagini antropomorfe del Cristo, racchiudendo il trascendente in simboli. Questa forma di rappresentazione simbolica del sacro avrà la sua massima espressione a partire dal V secolo.

La storia delle rappresentazioni pittoriche ed artistiche del sacro attraverserà molti momenti difficili, come la crisi del sistema iconoclastico generata dall’imperatore Leone III, con il suo divieto per l’occidente di produrre icone sacre. In questo contesto la città partenopea riuscì ad essere un luogo alquanto recettivo, accogliendo l’indomani del decreto dell’imperatore, il vescovo di Armenia, Gregorio, che si stanziò nel cuore della città di Napoli portando con sé le monache basiliane, che continuarono la produzione di icone sacre. Ancora oggi, la stessa zona dove trovò rifugio il vescovo Armeno, è considerata una zona ad alta produzione di oggetti artistici sacri. Quel quartiere, ancora oggi, cuore pulsante della produzione artistica dell’antico presepe Napoletano, è chiamato San Gregorio Armeno, dall’omonimo vescovo che trovò riparo dall’oriente.

Due mondi così vicini svilupparono tendenze diverse, ma differenza del mondo Orientale, l’Occidente iniziò a considerare le icone: oggetti di venerazione e di culto in quanto capaci di compiere miracoli, proprio per questo le raffigurazioni del sacro non diventarono utili solo per la loro funzione didattico-religiosa ma per il potere che i fedeli attribuivano a queste icone.

Proprio in questa escalation di successo per le icone votive, che dal Medioevo fino al Seicento, le immagini del sacro non servirono solo per scopi religiosi, ma anche per aggregare platee di fedeli al cospetto delle autorità del tempo[27].

Col passare del tempo questo fenomeno di produzione del sacro andava ridimensionato o almeno regolamentato, per non cadere in usi dissacranti, per questo seguendo lo spirito riformante del Concilio di Trento nel 1577, il cardinale Carlo Borromeo realizzò una relazione[28] sulle istruzioni per la realizzazione e l’eventuale utilizzo delle sacre icone.

Nel resto dell’Europa il problema dell’icone non sembrava gravare quanto in Italia, e in modo particolare nel Meridione e Napoli, che visse un momento di profonda fecondità devozionale verso un’infinità di culti e riti, che spesso sfociavano nelle pratiche magiche ed esoteriche. Se è questa la condizione generale di fede del popolo napoletano, risulterebbe superfluo giustificare il perché ogni famiglia, a partire da fine del Cinquecento tentasse di collezionare un numero elevato di oggetti sacri e di icone, esibendole come amuleti o portafortuna[29].

Oggi, le edicole votive forse sono considerate un fenomeno religioso secondario quando si pensa alla devozione popolare, un segno di scarsa importanza dal punto di vista architettonico o artistico[30]. Le edicole votive napoletane fino pochi decenni fa non godevano di molto interesse anche se molte di queste sono al centro di spettacolari culti, riti e feste folcloristiche di rilievo nazionale. Il primo studio unico e sistematico di questo fenomeno è intitolato Lo spazio sacro. Per un’analisi della religione popolare napoletana[31] e risale al 1978. 

Gli autori, pionieri della materia, scelsero di indirizzare la propria ricerca di studio, raccogliendo i dati proveniente da un’attenta osservazione delle edicole votive proveniente dall’area urbana di Montesanto, zona nella quale ancora oggi è possibile riscontrare un’alta concentrazione di tabernacoli e strutture architettoniche quali altarini dedicati a santi o culti propriamente religiosi.

Numerose ricerche sull’argomento sono state intraprese anche in altre città Italiane come a Roma[32], Genova e Palermo, uniche città in cui si manifesta questo fenomeno religioso popolare al pari della città partenopea.

A differenza delle altre città le edicole votive napoletane, sono collocate ai crocevia, angoli dei palazzi, occupano pareti spesso retrostanti delle vie principale e non, in molti casi risultando nascoste. Differiscono anche nella forma e struttura architettonica, si evince dall’attenta analisi che le edicole partenopee, a differenza di quelle genovesi e romane, nella maggior parte dei casi sono a tempio oppure a nicchia e non particolarmente decorate come accade per quelle genovesi e romane[33].

Esiste infine un’altra netta distinzione, fondamentale che non riguarda la prospettiva artistica o architettonica delle edicole, ma l’ambito religioso. A Napoli l’edificazione delle edicole votive non sempre corrisponde o trova giustificazione in un evento miracoloso. Se dunque in altre città la costruzione di edicole sacre e legata a qualche evento prodigioso o ritrovamento di antiche effige, a Napoli tale legittimazione non risulta necessaria. 

Ogni associazione, gruppo religioso, famiglia o quartiere, può edificare una qualsiasi edicola votiva senza che questa debba essere giustificata, o sottoposta all’approvazione ecclesiastica, proprio per questo la ricognizione e la catalogazione di questi altarini risulta difficile, per questo è difficile provare a mettere ordine.

La zona urbana di Napoli, particolarmente nelle sue strade più antiche, è caratterizzato da una vasta e diffusa presenza di edicole sacre. La loro origine si fa risalire all’iniziativa del padre domenicano Gregorio Maria Rocco, vissuto a Napoli dal 1700 al 1782. Oltre alla loro funzione religiosa, la funzione preminente delle edicole era quella di illuminare i crocevia, gli angoli delle strade, vicoletti nascosti e al buio della città, difatti la loro ubicazione in fondo alle strade ne garantiva una sorgente luminosa. Tuttavia, occorre sottolineare che con il tempo, questi tempietti hanno assunto anche una dimensione spirituale, divenendo oggetto di culto, così come le edicole romane[34].

Ultimo non per importanza, queste scenografiche rappresentazioni del sacro, con il passare del tempo diventano anche testimonianze di fede, di memorie e di eventi, che raccolgono l’eredità storica di un popolo.

Per tali ragioni le edicole votive vanno considerate parte del tessuto storico-sociale di Napoli; salvaguardarle significa contribuire a salvare non solo l’enorme patrimonio architettonico e di fede, ma in senso generico l’identità di un popolo che ha costruito ai crocicchi delle strade a ridosso dei quartieri, testimonianze di un tempo passato e presente, lasciando ai posteri spazio per poter continuare a scrivere altre pagine di religiosità popolare.

4.   L’azione “pastorale” di padre Gregorio Maria Rocco

Padre Rocco, al secolo Francesco Antonio Maria, nasce il 4 ottobre del 1700, venne battezzato nella chiesa di San Giovanni in Corte a Napoli. 

Fin da piccolo data la sua spiccata intelligenza e acuta curiosità, fu indirizzato a frequentare gli studi presso i Gesuiti ma, spinto da una grande devozione alla Vergine Maria, scelse di intraprendere gli studi presso i frati domenicani del quartiere Sanità. 

Crescendo all’ombra dei frati seguaci di San Domenico di Guzman, il 19 marzo del 1718 Francesco Antonio Maria, veste l’abito dei frati predicatori dello stesso ordine, divenendo per tutti Padre Gregorio Maria Rocco[35]. Poco dopo nel 1721 con dispensa del Santo padre riceve l’ordinazione sacerdotale. 

Avendo vissuto da sempre nel pieno centro urbano della città napoletana, che al tempo presentava enormi criticità tra povertà, prostituzione, scarse condizioni igieniche e brigantaggio, cercava senza farsi intimorire e senza piegarsi a minacce ed accuse di raccogliere i ragazzi e le fanciulle dai vicoletti, donando loro nuova dignità attraverso l’educazione e la formazione Cristiana[36].

Tutto questo fece sviluppare al giovane predicatore una sensibilità verso gli ultimi, gli emarginati, non poteva rimanere inerme, proprio lui che veniva dai quei bassifondi napoletani e ne riconosceva il grido di aiuto del popolo, doveva fare qualcosa, per questo la sua azione «pastorale» si unificò intorno al servizio della città e dei più poveri.

Padre Rocco popolano per la sua origine e sentimenti, con un carattere vivace ed impulsivo, non esitò ad affrontare e tradurre in azione concrete, le istanze sociale del tempo. Per il giovane predicatore era necessario avvicinare i ricchi e i potenti per aiutare i più deboli, portare chiarore a chi non riusciva a vedere la luce dal fondo, divenendo con le sue idee e il suo operato mediatore tra classi sociali.

Un lavoro difficile da portare avanti, anche perché il giovane frate per attirare a sé i più piccoli non si limitava solo nell’elargire prediche, ma usava anche altri mezzi. 

I dolori, le miserie, la paura del povero popolo napoletano li sentiva e lo facevano soffrire[37].

Sin da subito si fece prossimo ai più piccoli, percorse tutti i quartieri di Napoli in cerca dei suoi scugnizielli, quando li incontrava nei vicoli al buio della città li abbracciava, li benediceva, li portava al fiume Sebeto[38] e li lavava nel fiume, ripulendoli e rivestendoli con abiti puliti. In seguito cercava famiglia benestanti e dava in affido i suoi trovatelli. 

Padre Rocco ha iniziato a muovere i suoi passi nella caotica città napoletana, prima tra le province del Regno delle Due Sicilie, prima ancora della sua elezione a capitale del Regno. Al tempo il regno era governato dal Re Carlo III, che venne a prendere le redini del governo napoletano, soggiornando nel sontuosissimo palazzo reale, con vista sul meraviglioso golfo napoletano.

Carlo III, sovrano dal cuore d’oro, d’animo benevolo e benefico verso la città e i suoi cittadini, arricchì di beni materiali provenienti dalla casata spagnola tutto il regno. 

Il giovane predicatore, riconobbe il cuore nobile e le intenzioni del sovrano, così fece di tutto per riuscire ad entrare nelle sue grazie per trovare aiuto nel compimento delle sue opere missionarie di carità. Entrambi condividevano sogni di speranza per il popolo, uno per la vana gloria personale l’altro per la salvezza dell’uomo.

Carlo III venuto a sapere della fama che possedeva il giovane padre Rocco, fama conquistata nell’assistere gli ultimi, desiderò incontrarlo per saperne di più, l’amicizia con Padre Rocco gli tornava utile anche per realizzare i propri desideri per il regno e per la sua personalità.

A Napoli come in qualsiasi altra provincia del Regno, c’è stato sempre un alto numeri di poveri, Padre Rocco aveva un gran cuore e voleva aiutarli tutti. Da solo sapeva che non poteva risolvere o quantomeno migliorare la situazione per questo decise di farsi aiutare dai nuovi amici, quelli potenti e ricchi, che avevano il potere di cambiare la città: il Re e la sua amata consorte la Regina. 

Un giorno si presentò al cospetto del Re e si permise di esporre la situazione critica e surreale dei poveri che affollavano le strade del regno. Fece presente il giovane frate che questa situazione non giovava assolutamente all’immagine della città, anzi qualora un forestiero altolocato avrebbe varcato l’ingresso della città avrebbe assistito a scene poco raccomandabili, a causa di questi personaggi e della loro povertà, portando ad un giudizio negativo che avrebbe poi riportato alle altre corti, danneggiando la reputazione del regno e di conseguenza dei suoi sovrani.

Giocando di astuzia e di furbizia, il giovane frate riuscì a smuovere il cuore nobile del Re, che sicuramente non sarebbe rimasto insensibile alla questione.

Padre Rocco, suggerì di costruire un grande ospizio per i poveri, ma il re non solo ascoltò la proposta ma da quel momento si prodigò allo studio per progettare questo grande edificio, rassicurando il giovane domenicano che avrebbe esaudito la sua richiesta. 

Da quella intuizione, nacque nel regno di Napoli, dal disegno di due grandi architetti del tempo, i maestri d’arte Ferdinando Fuga, Francesco Maresca, il Real Albergo dei Poveri, che ancora oggi, in parte diroccato, domina la piazza centrale Carlo III nel cuore pulsante del quartiere Foria di Napoli[39].

Un altro evento molto importante, per la città di Napoli vide l’intervento del frate,  Napoli aveva bisogno di essere illuminata, poiché la notte diventava teatro di furti, aggressioni, omicidi ed altri eventi negativi. Dopo vari tentativi fallimentari, da parte della corte di risollevare il problema, il giovane padre Rocco, ottenne la piena fiducia da parte del Re, per risolvere il problema dell’illuminazione.

La sua idea consisteva nel collocare in ogni angolo l’effige della Madonna ritrovata nel convento e di un crocifisso, per questo fece produrre trecento tele della Madonna e cento crocifissi.

Scelse dei posti strategici per collocare i sacri oggetti, e dopo aver ottenuto il permesso dall’autorità ecclesiastica del luogo, radunava la gente del quartiere, benediceva l’immagine o il crocifisso, recitava alcune preghiere e teneva un breve omelia. 

Dinanzi a queste effige che collocava in piccoli altarini di quartiere poneva una lampada e sceglieva alcune persone deputate, affidandogli il compito di tenere sempre accesa la fiamma di quella lampada dinanzi all’immagine, sia di giorno e soprattutto di notte. 

Questo fu l’inizio, di un nuovo fenomeno, subito le richieste di altarini si moltiplicarono per tutta la città e molti ricchi signori vollero anch’essi collocare davanti alla propria abitazione il quadro della Madonna e il Crocifisso. 

Così in breve tempo, la città fiore all’occhiello del regno di Napoli fu illuminata senza alcuna spesa del Regio Erario, ma grazie al sentimento religioso del popolo, che adottarono le edicole votive, facendole proprie sostenendo spese e costi di gestione.

Informato il Re, della riuscita del piano messo in atto dal frate, si compiacque con lui, lodandolo pubblicamente. 

La fiducia che la corte riversava nei confronti di padre Rocco e nel suo operato, fu così smisurata che dal 1753 fino alla partenza del Re Carlo III il 7 ottobre 1759, il sovrano lasciò amministrare tutte le opere costruite per il popolo dal frate domenicano.

Il predicatore, proseguì la sua azione pastorale, continuando ad assistere le povere anime del regno, nelle strutture che aveva fondato tramite l’aiuto della famiglia reale.

Conosceva la città come le sue tasche, la percorreva più volte al giorno in cerca di nuove anime da curare e nuovi benefattori da coinvolgere nella sua missione.

Anche in assenza del Re Carlo III di Borbone, i sovrani gli assicurarono enorme rendite anche a distanza, infatti smisurati furono gli incentivi economici che arrivarono dalla capitale Spagnola del regno.

Ancora oggi, l’operato di Padre Gregorio Maria Rocco è ricordato nella tradizione napoletana per la sua intuizione geniale di illuminare le strade della città del regno, giocando sul sentimento popolare. 

L’ aver disposto in modo strategico l’effige della madonna in alcune edicole votive, permettendo il popolo di custodire e amministrare quegli altarini tenendo sempre accese dei lumini o in alcuni casi delle lampade ad olio, che hanno permesso di illuminare le strade senza gravare sulle casse del regno.

Questo espediente è ricordato ancora oggi nell’uso tradizionale dell’espressione: «A’ Maronna t’accumpagna» un detto che vuole ricordare l’impressa geniale del frate domenicano.

Questa espressione linguistica, ancora in uso oggi, al tempo voleva indicare la protezione che ogni viandante riceveva prima di cimentarsi di notte per le strade poco illuminate del regno, sotto lo sguardo della Vergine e la luce fiacca delle piccole fiammelle che l’illuminavano. 

Dall’allora l’uso di questa espressione è entrato a far parte della memoria e dalla tradizione napoletana, usata come augurio propiziatorio, per ogni nuova avventura di vita che ogni uomo si appresti ad intraprendere.

Queste edicole votive, oltre alla loro funzione pratica, assolvono anche una funzione spirituale, rappresentando in modo concreto una finestra di collegamento con il trascendente[40], dove ogni fedele può rivolgersi a tu per tu, per richiedere l’intercessione divina.

Basti pensare che anche il grande commediografo partenopeo Eduardo De Filippo, nella sua celebre opera teatrale Filumena Marturano[41]testo che appartiene alla trilogia sociale eduardiana, ovvero l’insieme delle opere teatrali che raccontano della realtà difficile del popolo napoletano per queste indicate con il termine «sociale»; colloca il monologo centrale della protagonista, addolorata da una serie di sfortunati eventi, chiedere l’intercessione della Vergine, e lo fa recandosi dinanzi all’altarino della Madonna, posta ad illuminare lo stretto vicoletto di San Liborio, nello storico quartiere di San Liborio.

5.   Forme devianti: “gli altarini della camorra”

La linea sottile tra sacro e profano, è un confine così esile che talvolta non ci accorgiamo, mentre celebriamo il sacro, di essere già approdati da tutt’altra parte. 

Le edicole votive rappresentano, quel portale di confine tra il sacro e il profano, dove il sacro è garantito dalla presenza della divinità, mentre il profano dall’uso improprio che il fedele conferisce attraverso riti e manifestazioni che riducono l’azione e lo spazio del sacro.

Insieme questi due aspetti, apparentemente contrapposti, quello del sacro e del profano, convivono in equilibrio precario e costante, nelle espressioni di pietà popolare.

Le edicole, poste nei quartieri napoletani, non solo diventano siti di eventi gloriosi, dove il divino si è fermato a concedere grazie o benedizioni al popolo, ma spesso assumono funzioni dissacranti, al servizio della criminalità organizzata. 

Il fenomeno criminale, sembra essersi configurato nel tempo come un elemento quotidiano, tanto da essere entrato a far parte del tessuto connettivo del popolo, fino a considerarlo pienamente inserito nella cultura locale.

La criminalità organizzata, non si è limitata solo ad utilizzare la rete informatica con il suo linguaggio, ma ha contaminato ed usato più registri per poter comunicare, sottomettere e ribadire con forza il suo predominio sul territorio.

Uno degli ambiti maggiormente utilizzati dalla mafia per trasmettere e far avvertire il proprio potere al popolo è stata proprio la religiosità.

La mafia meridionale non è solo una semplice organizzazione criminale, ma è parte di un sistema di rete molto più ampio, con i suoi rapporti, ha intercettato anche la Chiesa, che si configura a pieno titolo, partecipe di queste relazioni.

Il magistrato Giovanni Falcone[42], sosteneva che aderire ad un sistema mafioso, equivale in egual modo ad appartenere ad una religione. Inoltre affermava che la Chiesa, abbia in qualche modo, ispirato con le sue regole, e con la sua gerarchia e il lessico delle organizzazioni criminali. 

I sacramenti: battesimi, cresime, matrimoni e funerali anche questi utilizzati come segni di alleanza, insieme alle enormi offerte di denaro in favore di confraternite, pellegrinaggi, ed in modo particolare al patrocinio camorristico di feste patronali[43]

La strumentalizzazione di eventi pubblici appartenenti alla sfera del sacro serve alla criminalità locale per dimostrare il senso di apparenza ed il controllo sul territorio. 

Per anni la Chiesa, il clero e i numerosi fedeli che la compongono, hanno avuto un ruolo fondamentale, nel coprire il fenomeno criminale con il loro silenzio, comprato con il terrore di ritorsioni ed azioni criminali. 

È doveroso ricordare chi invece, appartenente al clero, ha combattuto contro la criminalità organizzata, fino a perdere la propria vita. Vogliamo ricordare Don Giuseppe Puglisi[44], per i suoi parrocchiani don Pino, e Don Giuseppe Diana[45], entrambi accomunati da un solo destino, aver combattuto la criminalità organizzata, denunciandola apertamente. 

Molti sono i combattenti con la talare, che continuano ogni giorno a combattere il fenomeno della criminalità organizzata, uno di questi è Don Luigi Ciotti, che con la sua azione genera nuovi processi di legalità, associazione Libera, associazioni, nomi e numeri contro le mafie[46].

Ancora oggi, molte città del sud Italia, vivono nel silenzio del terrore, all’ombra della camorra, che tutto copre, conquista e predomina. 

Nella città napoletana, l’accostarsi al sacro da parte della camorra, è in continua crescita, nonostante l’interminabile ed incessante lotta da parte delle autorità ecclesiali e civile[47].

Questo fenomeno, già noto nelle sue forme classiche, quali: processioni, riti, inchini e partecipazioni ai comitati patronali, negli ultimi anni, vede protagoniste anche le edicole votive. 

Sul territorio campano, il continuo proliferare di nicchie, tabernacoli e tempietti, in onore dei caduti, appartenenti alla criminalità organizzata, sembra aver conquistato i vicoletti della città.

Questo incessante fenomeno deviante, non sempre si manifesta con la costruzione ex novo dell’edicola, ma in alcuni casi si assiste all’appropriazione di alcune già esistenti, in particolare di quelle antiche e dismesse di notevole pregio artistico e storico, facendone perdere l’eleganza e la sua funzionalità sacrale. 

Quasi ad imitazione del sacro, questi altarini della criminalità organizzata, contrappongono al suo interno effige di santi locali, appartenenti alla tradizione storica napoletana, accanto a fotografie, stampe, oggetti appartenuti al defunto la cui edicola è nuovamente dedicata. Queste edicole originariamente sacre finiscono per diventare memoriali dei caduti degli appartenenti del clan.

 Nascono nei quartieri, tra i vicoletti, nelle roccheforti dei clan, in quelle zone dove la cultura e l’istituzione pare non abbiano incontrato terreno fertile.

Le edicole, in questa nuova visione contemporanea, non rappresentano solo il confine tra sacro e profano, ma tra legalità e illegalità.

Le cause che spingono all’edificazione di altarini dedicati alla criminalità organizzata sono da rileggere in due funzioni principali: la funzione emotiva e quella didattica.

La prima, appaga il bisogno di tenere in vita il defunto, sacralizzandolo, ponendolo al posto del Santo, quasi a protezione di quanti lo invocano. La seconda pone il camorrista, posto di riferimento nella sua edicola votiva di quartiere come un modello da seguire, continuando a padroneggiare anche dall’oltretomba il quartiere, nella sua blindata edicola. 

Quest’ultima funzione, forse la più pericolosa, contagia in modo pericoloso i giovani, che sposano il culto criminale con tattoo, scritte, tagli di capelli alla moda, vestiario e possedimenti di oggetti, sempre in onore del defunto criminale.

Quindi, queste edicole, spogliate della loro originale funzione, diventano un modo per conservare e tramandare la memoria della camorra. Dai Quartieri Spagnoli alla Sanità, passando per il centro storico, possiamo notare i volti, i murales, le foto degli affiliati ammazzati posti dinanzi alla Madonna dell’Arco, alla Madonna di Pompei, al Volto Santo e a Padre Pio[48]

Di clamore nazionale, è stato l’episodio di una costruzione di un tempietto, arredato con diversi simboli sacri, con al suo interno ritratto di un uomo ucciso in una delle faide tra clan, posta su una colonna dell’acquedotto romano ancora conservato nel quartiere San Carlo Arena, ai Ponti Rossi. La vicenda resa nota alla cronaca grazie all’intervento puntuale e tempestivo sulla città del consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli, che ha dichiarato:

«Mentre vengono glorificati pubblicamente boss sanguinari come Raffaele Cutolo, definito su manifesti pubblici per l’anniversario della sua morte “anima benedetta” e baby rapinatori a cui sono dedicati altarini e murales la camorra e la delinquenza accrescono il loro potere “sociale e culturale” sempre di più.»

Questo caso, che ha sconvolto l’opinione pubblica, non risulta l’unico caso emblematico avvenuto nella città di Padre Gregorio Rocco, ma nell’aprile 2021 è stata rimossa e consegnata alla famiglia l’urna funeraria contenente le ceneri di Emanuele Sibillo[49], il più giovane e sanguinario boss che la criminalità organizzata ha mia conosciuto. Il sacrario del baby boss era ubicato sotto gli occhi di tutti, a pochi metri dal luogo dove è stato freddato, in un altare dedicato alla Madonna in via Santissimi Filippo e Giacomo, nel pieno centro storico di Napoli.

Sicuramente, questi episodi cruciali, vogliono sottolineare come l’uso improprio di questi altarini, abbia contribuito al cartello criminale locale. 

È importante sottolineare che molti altarini, per la loro «immunità sacramentaria» hanno svolto funzioni diverse, in molti casi fungono da nascondigli di armamentari e sostanze stupefacenti, poiché luogo inaccessibile e temuto dal popolo, in quanto sacro, quindi insospettabile.

Tutta questa faccenda, rappresenta l’immagine di una strumentalizzazione del sacro, una forma deviante dell’uso originario di questi altarini, che da servire il popolo, sia divenuto strumento della criminalità.

Con la speranza che possano ritornare alla loro funzione originale, di collegare il fedele al divino, resta comunque urgente e di estremo bisogno, l’intervento della Chiesa, affinché non permetta più forme di eventi distorti o deviati della religiosità popolare.

 Educare alla pietà popolare, rinsaldare il sentimento religioso, attraverso l’educazione alla fede, così come fece Padre Gregorio Maria Rocco, potrebbe essere un primo inizio nel contrastare questo fenomeno, ripulendo il sacro dal profano criminale.

CONCLUSIONI

È possibile evincere che la religiosità popolare, nonostante le sue luci e ombre, è capace ancora oggi di toccare l’anima del popolo, entrando, a pieno titolo, nell’esperienza ordinaria della vita popolare. 

La Religiosità popolare spesso incorre in fuorvianti generalizzazioni e giudizi affrettati che la confinano a retaggio, di serie B, di poco conto. 

Allo stesso tempo, però, è doveroso sottolineare, che la Pietà Popolare, come è denominata nei documenti ufficiali del Magistero, possa ancora oggi essere strumento che conforta e rafforza l’animo dell’individuo e al tempo stesso capace di generare processi di emancipazione, in grado di coinvolgere l’intera società civile.

La Religiosità popolare con la bellezza scenografica che mette in atto, con manifestazioni, processioni, canti e rituali, è in grado di coinvolgere una pluralità di persone, spesso interi quartieri, città o nazioni, intercettando anche fedi e credenze religiose sopite. 

Così facendo essa si configura come una nuova forma di evangelizzazione, capace di riavvicinare alcune categorie di fedeli, in particolare giovani, donne e quelle fasce più esposte al processo di secolarizzazione, favorendo un nuovo e rinnovato contatto con la fede.  

Nella sua semplicità potrà continuare ad instaurare un rapporto privilegiato con il divino, senza risultare appesantita da schemi e regole rigide, favorendo il protagonismo dei delusi e lontani.

Alla luce anche di alcuni documenti del Magistero presi in esame risulta assolutamente chiaro che la pietà popolare non è da considerare un retaggio del passato ma un fenomeno vivo e capace di adattarsi al presente, la pietà popolare, con la sua forza intrinseca, è parte identitaria del popolo fino a caratterizzare persino l’identità nazionale.

Per questo motivo è stato fondamentale, per poter leggere con maggiore chiarezza e toccare con mano il fenomeno, non tralasciare lo studio dell’analisi di quelle forme di religiosità appartenenti al sud del mondo, poiché è proprio nel meridione che queste forme popolari acquisiscono la loro massima pienezza e la più alta forma culturale. 

Per questo motivo, il terzo capitolo di questo elaborato è dedicato allo studio e alla presentazione di un fenomeno caratteristico e maggiormente diffuso nella città partenopea: le edicole votive come espressione della religiosità popolare del popolo napoletano. 

Potente e innovativa, seppur antica, con grandi capacità comunicative ed esperienziali, capace di porre cambiamenti radicali fino a trasformare la società, gli uomini e la vita di ognuno, la pietà popolare è davvero troppo importante per essere relegata a un fenomeno superficiale accettato dalla Chiesa: essa è parte viva della comunità ecclesiastica, essa è Chiesa, spazio privilegiato di incontro con Dio.

Nonostante il coinvolgimento del popolo e i molteplici benefici che essa può apportare all’individuo e alla comunità, tanti restano i rischi ed i pericoli che la religiosità popolare possiede intrinsecamente. Rischi che possono farla degenerare in espressioni devianti, danneggiando l’immagine della Chiesa fino a compromettere, in alcuni casi, l’integrità stessa della fede. 

Quest’ultimo e delicato aspetto trova un approfondimento nell’ultima sezione di questo lavoro, attraverso un racconto dell’uso deviante delle forme del sacro che vede protagonista la città napoletana. 

Da sempre il popolo campano ha vissuto tra elementi sacri e profani, trainando, ancora oggi, forme e rituali magici come elementi di superstizione. Dalle sue viscere al suo cielo, la città della sirena Partenope è eternamente esoterica, ma questo non ostacola in alcun modo il bisogno popolare di vivere e celebrare il sacro. 

L’equilibro, a volte instabile, tra il sacro ed il profano nella città campana la rendono unica nel suo genere, alimentando notevolmente il suo turismo e favorendo, in questo modo, l’economia della città.

Le edicole votive, da sempre, sono testimonianza di fede e memoria storica della città e ancora oggi raccontano eventi legati alla storia popolare, oltre a essere anche architettonicamente e artisticamente beni di elevato valore culturale diffusi sul territorio. 

Spesso divengono oggetto di strumentalizzazione da parte della criminalità organizzata, la quale se ne appropria rendendole altarini di affiliati morti o nascondigli di armi e sostanze stupefacenti. Sinonimo di protezione sacra, possedere elementi legati al culto per questi clan equivale ad accrescere la propria legittimazione sociale, come dimostrazione del loro potere e della loro forza.

In conclusione, la Religiosità Popolare rappresenta un tesoro nascosto, poco considerato, che deve assolutamente essere custodito e preservato perché ha in sé una vera forza evangelizzatrice, attraverso la quale lo Spirito Santo soffia e continua ad agire nella vita delle persone. 

Non solo fede, la religiosità popolare è anche un processo socio-culturale che guida la collettività e il singolo verso l’emancipazione, facendo sempre attenzione al persistente rischio di separare la dimensione sacra dalla sua manifestazione, con il conseguente pericolo di confinarlo a puro spettacolo culturale.

Per questo motivo la religiosità popolare costituisce una sfida non solo per la Chiesa, ma anche per la società civile e le sue istituzioni. Perdere l’occasione di preservarla e custodirla equivale, per la prima, a perdere l’occasione di intercettare categorie di fedeli lontani, per la seconda, invece, a perdere l’occasione di saper leggere le dinamiche sociali e poter offrire strumenti di elevazione culturale.

Da come il popolo prega, venera e manifesta il sacro pubblicamente, si evince la sua identità ed i rapporti di collaborazione che gli individui instaurano tra di loro.

La pietà popolare non è una reliquia del passato, è molto di più di uno spettacolo culturale o folkloristico, essa è un «luogo teologico» dentro il quale l’uomo comunica con gli altri e con Dio. 


[1]CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, «Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium» (4 dicembre 1963), in Enchiridion Vaticanum, I, EDB, Bologna 1976, 288.

[2]Ibidem. 

[3]RINO FISICHELLA, «Prefazione» a D. C. GOMEZ, Luci e ombre della religiosità popolare, Tau Editrice, Perugia 2022, 7.

[4]D. C. GOMEZ, Luci e ombre della religiosità popolare, 23.

[5]J.M. BERGOGLIO, Meditaziones para religiosos, cit. in D. C. GOMEZ, Luci e ombre della religiosità popolare, Tau Editrice, Perugia 2022, 25.

[6]D. CUESTA GÒMEZ, La procesiòn va por dentro. En busca de una espiritualidad cofrade, cit. in D. C. GOMEZ, Luci e ombre della religiosità popolare, Tau Editrice, Perugia 2022, 30.

[7]PAOLO VI, «Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi», 894.

[8]CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, «Direttorio sulla pietà popolare e la liturgia», (2002), 6-10,

www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccdds/documents/rc_con_ccdds_doc_20020513_vers-direttorio_it.html[ultimo accesso: 25 aprile 2024].

[9]In una società capitalistica, una vera chiesa di Cristo non è immaginabile se non come Chiesa che vive in una situazione missionaria (…). L’installazione della chiesa in una società capitalistica porta con sé germi di apostasia dall’Evangelo. Infatti c’è una realtà storica che non possiamo negare: all’ombra del nostro ambiente capitalistico è nata e si è sviluppata una prassi pseudoteologica che considera come unico compito della Chiesa la cosiddetta «salvezza delle anime», intesa in senso spiritualistico ed angelistico di pura evasione. La critica di Marx alla religione tiene appunto presente questo contesto. Nella società capitalistica – dice Marx – il gruppo sfruttatore trova nella religione una magnifica alleata, poiché la religione promette una salvezza che è sempre salvezza individuale: allora il credente invece di cercare aiutare i fratelli a sollevarsi dalla loro condizione di miseria, si adagia «nell’egoismo cristiano della salvezza» preoccupandoci unicamente del destino della propria anima. Ora se si potesse parlare di «un’antropologia biblica», si dovrebbe dire che in primo piano non c’è l’anima bensì l’uomo totale. (…). Non si può negare che l’inserimento della Chiesa nella società capitalistica ha fortemente condizionato la mentalità dei cristiani, rendendoli conformisti e inclini all’evasione degli impegni umani. (…) Ancora più chiaramente, potremmo dire che: «sbagliano quei cristiani che, col pretesto che non abbiano qui una città permanente, credono di poter trascurare i compiti temporali; costoro non si accorgono che la loro fede è un motivo che li induce di per sé ad un più perfetto adempimento di tutti quei compiti, secondo la vocazione personale di ciascuno». Cf. GONZALEZ RUIZ – GEREST – GRIFFIN – MASPERO, Il Cristiano e la Rivoluzione, P. Gribaudi Editore, Torino 1968.

[10]Cf D. MENOZZI, Il potere delle devozioni. Pietà popolare e uso politico dei culti in età contemporanea, Carocci Editore, Roma 2022.

[11]Cf M. MAFFESOLI, La nostalgia del sacro. Il ritorno della religione nelle società   postmoderne, Armando Editore, Roma 2022.

[12]Cf O. TODISCO, Marx e la religione, Città Nuova, Roma 1975.

[13]Cf S. SCATENA, La teologia della liberazione in America latina, Carocci Editore, Roma 2008.

[14]Cf L. MEZZETTI, Diritto islamico. Storia, fonti, istituzioni, società, Giappichelli Editore, Torino 2022. 

[15]Cf G. CUCCI, Religione e secolarizzazione. La fine della fede, Cittadella Editrice, Perugia 2019.

[16]GIOVANNI XXIII, «Radiomessaggio ai fedeli di tutto il mondo, all’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II» (11 settembre 1962) 

www.vatican.va/content/john-xxiii/it/speeches/1962/documents/hf_j-xxiii_spe_19620911_ecumenical-council.html [ultimo accesso: 18 maggio 2024]. 

[17]GIOVANNI XXIII, «Enciclica Pacem in terris» (11 aprile 1963), in Enchiridion Vaticanum, I, EDB, Bologna 1976, 292.

[18]S. SCATENA, La teologia della liberazione in America Latina, 27-48.

[19]Il Consiglio episcopale latinoamericano, meglio noto con la forma abbreviata di CELAM, è un organismo della chiesa cattolica che raggruppa i vescovi dell’America Latina e dei Caraibi.

[20]Cf G. GUTIÉRREZ, Perché Dio preferisce i poveri – La teologia della liberazione è sempre attuale, EMI, Verona 2015.

[21]Cf  P. SWEEZY, Il futuro del capitalismo, in Dialettica della liberazione, Torino 1969.

[22]Gustavo Gutiérrez Merino (8 giugno 1928) è un presbitero e teologo peruviano, membro dell’Ordine dei Frati Predicatori: è ritenuto il fondatore della teologia della liberazione. È docente all’Università di Notre Dame.

[23]Cf  R. GIBELLINI, Il dibattito sulla teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1986.

[24]Cantàmmo a Gesù, è l’etichetta musicale dei giovani della parrocchia di Don Michele Madonna, che guidati dalle singole competenze musicale e artistiche hanno formato un gruppo di produzione musicale di contenuto cattolico.

[25]Cf A. SIANO, 2022, Papa Francesco chiama don Michele Madonna, il prete dei «rave» cristiani, in Rainews, disponibile su

www.rainews.it/tgr/campania/articoli/2022/08/papa-francesco-chiama-don-michele-madonna-il-prete-dei-rave-cristiani-e82035bc-3d60-4929-94ba-a75f47dfefdb.html [ultimo accesso: 18 maggio 2024].

[26]Cf V. ORLANDO, «Giovani e religiosità popolare tra tradizione e mutamento» in note di pastorale giovanile (1987)www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=4056:giovani-e-religiosita-popolare-tra-tradizione-e-mutamento&Itemid=1011 [ultimo accesso: 18 maggio 2024].

[27]Cf S. GAETA, Edicole votive immagini di religiosità popolare, E.C.S., Napoli 1983.

 

[29]Cf M. A. PAVONE – P. DE MAJO, Pittura e devozione a Napoli nel secolo dei Lumi, SEN, Napoli 1977.

[30]Cf M. R. COSTA, Le edicole sacre di Napoli, Tascabili economici Newton, Roma 1998.

[31]Cf G. PROVITERA – G. RANISIO – E. GILBERTI E., Lo spazio sacro per un’analisi della religione popolare napoletana, Guida, Napoli, 1978.

[32] Cf G. TESI, Le edicole sacre di Roma, Anthropos, Roma, 1988.

[33]Le edicole votive romane e genovesi nel seicento ebbero una funzione puramente decorativa, difatti vennero collocate in punti strategici della città, ossia negli angoli dei palazzi o nelle piazze, seguendo il gusto artistico del secolo,trasformandoli così in accessori scenografici.

[34]Cf G. DE FIORE, Le luci negli angoli, Armando Armando Editore, Roma 1960.

[35]Cf A. CAPECELATRO, La vita del Padre Rocco narrata particolarmente ai popolani, Tournay, Roma 1891.

[36]Cf E. A. GIARDINO, Il predicatore delle strade di Napoli, Editrice Domenicana Italiana, Napoli 1987.

[37]Cf E. A. GIARDINO, Il predicatore delle strade di Napoli, Enzo Albano Editore, Napoli 20032.

[38]Il leggendario fiume Sebeto un tempo scorreva nella città di Napoli: oggi sembra essere a tutti gli effetti scomparso, ma di lui sopravvivono le suggestive leggende e i miti che lo raccontano innamorato della sirena Partenope. Oltre ad una fontana, situata a Mergellina.

[39]Cf P. DEGLI ONOFRI P., Elogio estemporaneo per la gloriosa memoria di Carlo III, Stamperia di P. Perger, Napoli 1790.

[40]Cf P. VENTURA, Il sistema degli spazi sacri a Napoli tra XVI e XVII secolo, L‘École Française de Rome, Roma 2000.

[41]Filumena Marturano è una commedia teatrale in tre atti scritta nel 1946 da Eduardo De Filippo e inserita dall’autore nella raccolta Cantata dei giorni dispari. È uno dei lavori di Eduardo più conosciuti e apprezzati dal pubblico e dalla critica internazionale.

[42]Giovanni Salvatore Augusto Falcone nato a Palermo il 18 maggio 1939 è stato un magistrato Italiano. Assieme ai colleghi e amico Rocco Chinnici, Antonino Caponnetto e Paolo Borsellino, Falcone è stato una delle personalità più importanti e prestigiose nella lotta alla mafia in Italia e a livello internazionale. Fu ucciso da Cosa nostra insieme alla moglie e collega Francesco Morvillo e ai tre uomini della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

[43]Cf CONFERENZA EPISCOPALE CAMPANA; «Evangelizzare la pietà popolare» (2021)

[44]Don Giuseppe Puglisi, detto Pino nato a Palermo il 15 settembre 1937 , è stato un presbitero e educatore italiano, ucciso da Cosa nostra nel giorno del suo 56º compleanno a causa del suo costante impegno evangelico e sociale. Il 25 maggio 2013, sul prato del Foro Italico di Palermo, davanti a una folla di circa centomila fedeli, è stato proclamato beato. La celebrazione è stata presieduta dal cardinale Paolo Romeoarcivescovo di Palermo, mentre a leggere la lettera apostolica di beatificazione è stato l’arcivescovo emerito Salvatore De Giorgi, delegato da papa Francesco. È stato la prima vittima di mafia riconosciuta come martire della Chiesa.

[45] Giuseppe Diana, chiamato anche Peppe Diana o Peppino Diana è nato a Casal di Principe il 4 luglio del 1958, è stato un presbitero, attivista e scout italiano, assassinato dalla camorra per il suo impegno antimafia. Il suo impegno civile e religioso contro la camorra ha lasciato un profondo segno nella società campana.

[46]Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie è un’associazione di promozione sociale presieduta da don Luigi Ciotti, fondata nel 1995 su ispirazione di Luciano Violante e Saveria Antiochia, con l’intento di sollecitare la società civile nella lotta alla criminalità organizzata e di favorire la creazione di una comunità alternativa alle mafie stesse. Libera coordina più di 1600 realtà nazionali e internazionali che si occupano in vario modo del contrasto alla criminalità organizzata. Fra gli scopi dell’associazione: promuovere i diritti di cittadinanza, la cultura della legalità democratica e la giustizia sociale; valorizzare la memoria delle vittime di mafie; contrastare il dominio mafioso del territorio. 

[47]Cf MINISTERO DELL’ INTERNO – Prefettura di Napoli, «Napoli. Al via le operazioni di rimozione di murales e altarini abusivi.»,

www.prefettura.it/napoli/contenuti/Napoli._al_via_le_operazioni_di_rimozione_di_murales_e_altarini_abusivi.-10640198.htm

[ultimo accesso: 13/04/2024].

[48]Cf A. CAPEZZUTO, «Napoli i santi della camorra» in Blog il fatto quotidiano; www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/02/napoli-santi-e-cappelle-votive-per-i-boss/581170/

[ultimo accesso: 13/04/2024].

[49]Emanuele Sibillo, giovane baby boss del centro storico di Napoli, intorno al quale il clan ha costruito un alone di leggenda fino ad iconizzarlo. Non ancora ventenne, era a capo di un gruppo satellite del clan Contini, chiamato “la paranza dei bambini”. E. Sibillo, noto come ES17, è stato ucciso nel 2015, in un agguato durante la guerra coi Buonerba.