PAOLO GRAZIANO – IL DILEMMA DEL PRINCIPE E I DADI DI DIO

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Poche attività speculative, come la fisica teorica, hanno posto l’uomo a confronto con i segreti ultimi dell’universo; e forse in nessuna circostanza – prima della grande cavalcata scientifica verso la conoscenza dell’atomo e dei suoi elementi – questa disciplina arcana e vagamente esoterica ha stretto in pugno i destini e delle specie del mondo, definendo in modo del tutto nuovo i perimetri del dilemma morale e, in certo senso, la domanda metafisica o persino l’interrogativo sull’esistenza di Dio.

Sono questi i temi cruciali che affronta quello che è stato definito «il film definitivo sulla nostra epoca» (Wired): Oppenheimer di Christopher Nolan, il bio-pic sulla vicenda umana e intellettuale di uno dei padri dell’energia atomica e del suo drammatico uso per fini bellici, elaborato e sperimentato nei laboratori di Los Alamos, New Mexico. La rappresentazione della vicenda esistenziale, ma soprattutto del confuso e misterioso travaglio interiore di una delle menti più geniali del suo (e nostro) tempo, oscilla tra il profilo di un eroe, benemerito per la causa del suo paese e delle democrazie occidentali, e quello di un malvagio Epimeteo (Επιμηϑεύς, etimologicamente “colui che si accorge dopo”).

Nella narrazione di Nolan, la storia esemplare di Oppenheimer si distende nel tempo, dagli anni ’30 della Grande Depressione alla persecuzione maccartista degli anni ’50, in quell’America ossessionata dal comunismo, dall’incubo nucleare e dalla irriducibile divisione in blocchi ideologici, che forse riflette e condiziona la coscienza divisa e la morale ambivalente del complesso protagonista. Specchio dei tempi terribili che si trovò a vivere, Robert Oppenheimer è un uomo irrimediabilmente angosciato, la cui pena scaturisce da un irrisolvibile dilemma morale e spirituale. Per spiegarlo da un punto di vista religioso, pochi hanno ricordato il peso che ebbe, nella vita del grande scienziato, la costante ruminazione del Bhagavad Gita («Canto del Divino»), il poema epico sanscrito che fin dagli anni degli studi universitari lo scienziato lesse e meditò con Arthur W. Ryder (1877-1938), professore di sanscrito all’Università della California di Berkeley, dove Robert insegnava fisica teorica. Il testo indiano esordisce con il principe Arjuna impegnato in battaglia sul suo carro. Scorgendo però, nelle file avversarie, familiari e amici, si ritirò dal combattimento, chiedendo nel contempo consiglio al suo amico e confidente, il cocchiere Krishna, figura del dio Vishnu. I capitoli seguenti vedono dipanarsi le argomentazioni di Krishna a favore dell’impegno militare del principe che, essendo un soldato, non può sottrarsi al dovere della milizia; ma non creda, per questo di avere potere di vita o di morte sui suoi avversari, perché sarà il dio stesso – tramite la mano di Krishna – a decidere il bersaglio di ogni dardo scoccato. È solo questa nuova consapevolezza che spinge Arjuna a tornare in battaglia, pronto a strenui sforzi e persino al sacrificio estremo, ma finalmente abbandonato alla fiducia nelle decisioni imperscrutabili del dio.

Chissà se questa immagine proveniente da un’altra tradizione spirituale, conosciuta e sistematicamente studiata dal fisico, possa aver dato un senso al profilo paradossale che andava assumendo la teoria dei quanti ai pionieri della nuova meccanica, suggerendo che, per ogni determinata azione, noi possiamo solo calcolare la probabilità con cui le sue conseguenze si manifesteranno, ma non esattamente quali saranno tali conseguenze. La probabilità, infatti, è al cuore del mistero della realtà quantistica, giacché il mondo quantico obbedisce rigidamente alle regole probabilistiche. Con ciò non s’intende dire che, di fronte a un gran numero di eventi quantistici in corso nello stesso istante, sia possibile prevedere cosa accadrà, come invece avviene nella mondo di cui facciamo concreta esperienza: ricorrendo a un esempio statistico – il numero di morsi di cane registrati negli ospedali di una grande città – Heinz Pagels dimostrò che il caso distribuisce gli eventi con una certa regolarità nel tempo, ritrovando quindi un principio organizzatore anche nell’apparente disordine del fortuito. Nulla di tutto ciò è riscontrabile nel comportamento delle particelle subatomiche, che sfidano anche le nostre ragionevoli possibilità di previsione, mostrando che di fatto è impossibile figurarsi gli esiti, su larga scala, di una serie di eventi quantistici che si producono contemporaneamente. Anzi, il destino di ogni processo, in ciascun luogo, è influenzato da quello che avranno analoghi processi in luoghi diversi.

Fu proprio questa manifesta indecidibilità degli eventi quantistici, segnalata da una teoria incerta e rivoluzionaria per i tempi, che indusse Albert Einstein a pronunciare la sua celebre considerazione: «Non posso credere che Dio giochi a dadi con l’universo». Costantemente resistente – come lo stesso fisico di Los Alamos – nei confronti dell’adesione a qualsiasi dottrina religiosa organizzata, Einstein era tuttavia figlio di ebrei askenaziti non osservanti, ed ebbe il suo momento di fascinazione per l’ebraismo nella prima adolescenza. Con il passare del tempo, Einstein si spostò verso posizioni molto più realiste e iniziò a concepire le teorie scientifiche come possibili rappresentazioni vere di una realtà fisica oggettiva. E un certo senso religioso che si portava dietro dalla tradizione familiare e intellettuale, divenne il fondamento della sua filosofia. Quando gli chiedevano quali fossero i presupposti delle sue posizioni realiste, affermava: «Non mi sovviene un’espressione migliore della parola “religiosa”, per descrivere la mia fede nel carattere razionale della realtà e nella possibilità per l’uomo, fino a un certo punto, di conoscerla». Un disegno divino presiede all’intero funzionamento dell’universo, che segue le regole deterministiche dei principi di creazione e di causa ed effetto; esso può essere conosciuto dall’uomo disponibile a contemplarlo (lo scienziato moderno, ad esempio).

Di tutt’altro segno fu il nutrimento religioso della mente e della coscienza di Oppenheimer, ma la fede ricorre anche nei suoi discorsi cruciali. Durante l’orazione funebre per la morte del presidente Roosevelt, tenuto a Los Alamos nell’aprile 1945, citò un verso (Bhagavad Gita, XVII, 3) che amava ripetere spesso e che avrebbe ripetuto anche in seguito, approssimandosi la sua fine: «L’uomo è una creatura la cui sostanza è la fede. Come è la fede dell’uomo, così egli è». La sua è piuttosto la fede smarrita e problematica di chi va scoprendo, poco a poco, che il disegno resta imperscrutabile, e regge solo sulla base della fiducia incrollabile nell’azione di una divinità avara, che non distribuisce segni ai suoi fedeli. Per questo lo scenario che affascinò Oppenheimer, nel corso della sua vita, fu il deserto, luogo biblico dell’incertezza e del disorientamento eppure anche incubatore della rinascita. Lì, dove il fisico impiantò i laboratori del Progetto Manhattan, si svolse il primo esperimento di esplosione di un ordigno nucleare, denominato Trinity, forse alludendo alla trinità induista di Brahma, Vishnu e Shiva, rispettivamente il Creatore, il Preservatore e il Distruttore; forse in omaggio a uno dei Sonetti sacri di John Donne, che lo stesso fisico citò al proposito: «Perché io sorga e stia: sopraffammi, tendi / la tua forza: spezza, esplodi, brucia me, / fammi una nuova creatura» (XIV). Nella scatola di polvere e rocce in cui la divinità ha deciso che succeda l’inimmaginabile, il moderno Prometeo libera una forza dirompente di cui ignora la natura ma intuisce instabilità, pericoli, incognite.

Dai fronti opposti di due visioni della fisica, delle sue leggi e forse della fede, è proprio a Einstein e Oppenheimer che, simbolicamente, Nolan affida il confronto su un problema fisico con il conseguente, ricorrente dilemma morale: la possibilità che lo sgancio di una bomba nucleare possa innescare una reazione a catena capace di distruggere il mondo, riscaldando l’atmosfera fino a fondere gli atomi di azoto (in realtà l’ipotesi  fu discussa con Edward Teller, padre della bomba a idrogeno). La risposta che emerse dai calcoli degli scienziati, già nel 1942, fu che l’ipotesi era estremamente remota ma non impossibile, poiché in meccanica quantistica tutto ciò che non è proibito dalle leggi di conservazione ha una probabilità diversa da zero di verificarsi. Anche questo terribile scenario, dunque, sarebbe stata in mani divine. Nella trama del film – che si presta a molteplici letture – gli aspetti morali e religiosi della vicenda umana di Oppenheimer sono pervasivi, per quanto mai esplicitamente dichiarati, e trasformano un pezzo di storia del Novecento in un grandioso apologo sul valore della vita e della morte sub specie aeternitatis, sul peso delle scelte e della volontà del singolo nella piega che prendono gli eventi, sul senso ultimo di ideologie, credenze, fedi nelle azioni umane. In un mondo così complesso e articolato, in cui la tecnica allontana gli effetti dalle cause, fino a convincerci che nessuno può dirsi colpevole e nessuno innocente di fronte a ciò (Hiroshima) che viene presentato come ineluttabile, Nolan prende sul serio il determinismo dell’ebreo askenazita, così come il fatalismo del seguace di Vishnu. E ci mette in guardia sul rischio di crederci irrilevanti nel corso delle cose, ricordandoci il precetto morale del credente: agire come se tutto dipenda da noi, pur sapendo che nulla davvero decidiamo. Siamo servi inutili, sì. Ma avremo fatto quanto dovevamo fare (cf Lc 17,5-10).