di Nicola Palma
Con l’avvicinarsi delle festività natalizie, le nostre abitazioni — per chi crede o semplicemente desidera mantenere vive le tradizioni — iniziano a riempirsi di addobbi: festoni, luci, decorazioni di ogni genere. Anche strade, negozi e luoghi pubblici si trasformano in scenari luminosi e colorati. Tra gli ornamenti più diffusi, qualcuno sceglie di inserire anche una rappresentazione della Natività, comunemente conosciuta come “presepe”.
Il presepe, ormai realizzato in forme, dimensioni e materiali diversissimi, è presente un po’ ovunque; talvolta persino in luoghi discreti o nascosti, per evitare di urtare la sensibilità di chi non riconosce o non condivide questa tradizione religiosa e culturale. Ma cos’è realmente il presepe? È solo una semplice — o complessa — messinscena artistica dell’Incarnazione? O custodisce un significato più profondo? Nel tentativo di formulare una definizione, potremmo iniziare digitando la parola “presepe” su un motore di ricerca o, per i più esperti, su un prompt di intelligenza artificiale. Troveremo spesso una descrizione simile alla seguente:
“Il presepe è una rappresentazione della nascita di Gesù che combina figure sacre (la Sacra Famiglia, i pastori, gli angeli, i Magi) con elementi della vita quotidiana, spesso ispirati al mondo popolare del luogo in cui viene realizzato. […]”
Comprendiamo subito che questa forma di “sacro artistico” è tutt’altro che semplice da racchiudere in poche parole o in una breve storia. Basti pensare che, per il popolo partenopeo, l’arte presepiale non è soltanto una delle tante espressioni nate nei secoli per raffigurare il sacro, ma una vera e propria manifestazione di Religiosità Popolare. Essa unisce sacro e profano senza mai perdere di vista il centro della narrazione evangelica: l’Incarnazione. Per questo motivo, possiamo considerare il presepe come un oggetto di pietà popolare, di straordinaria bellezza e complessità, capace di parlare al cuore delle persone e di raccontare, con linguaggi diversi, il mistero che rappresenta.
Per comprendere pienamente che cosa significhi e che cosa rappresenti oggi per noi il presepe, è essenziale conoscerne il percorso storico e le origini. Molti fanno coincidere la nascita di questo fenomeno con la celebre rappresentazione voluta da San Francesco a Greccio nel 1223, nel piccolo comune laziale di 1.470 abitanti in provincia di Rieti. Tuttavia, esistono raffigurazioni della Natività ben più antiche: già i primi cristiani scolpivano e dipingevano scene legate alla nascita di Gesù. Basti pensare alla più antica immagine conosciuta della Natività e a una delle più antiche rappresentazioni dei Magi, entrambe risalenti al III secolo e conservate nelle Catacombe di Santa Priscilla, un vastissimo complesso archeologico di oltre tredici chilometri.
Dopo aver richiamato il contesto storico-artistico della rappresentazione della Natività, è utile rintracciarne le origini anche all’interno della Sacra Scrittura. Tra i principali profeti dell’Antico Testamento che annunciano la futura venuta del Messia cristiano troviamo Isaia, Michea e Geremia. Isaia parla sia della nascita verginale dell’Emmanuele sia della figura del Servo sofferente; Michea indica Betlemme come luogo della nascita del Messia; Geremia collega il futuro Redentore alla discendenza di Davide. Indicazioni più dettagliate, seppur non sempre completamente convergenti, si trovano poi nei Vangeli canonici di Luca e Matteo, mentre Marco e Giovanni omettono il racconto della nascita. I Vangeli apocrifi, al contrario, offrono narrazioni più ampie e ricche di particolari inediti: tra questi, il più noto è il Protovangelo di Giacomo.
Anche la data della nascita di Gesù non è riportata nelle Scritture. Come ricordava il grande teologo e Pontefice Benedetto XVI nell’udienza generale del 23 dicembre 2009, «il primo ad affermare con chiarezza che Gesù nacque il 25 dicembre è stato Ippolito di Roma, nel suo commento al Libro del profeta Daniele, scritto verso il 204». Lo stesso Ratzinger osservava che la festa cristiana del 25 dicembre aveva sostituito quella pagana del Sol Invictus, celebrata nel giorno del solstizio d’inverno, il giorno più corto dell’anno, dopo il quale la luce torna gradualmente a crescere. Richiamate queste premesse, possiamo tornare alla domanda iniziale: la rappresentazione della Natività nel presepe è solo tradizione o ha qualcosa di più profondo da comunicarci?
Il presepe — non solo quello napoletano, ma in generale tutte le sue forme e tipologie — non è semplicemente una raffigurazione del sacro. Esso svolge anche una funzione pedagogica-didattica, che da sempre gli appartiene. Inserire l’Incarnazione nelle nostre celebrazioni natalizie significa ricordare quanto amore e in quale condizione Dio abbia assunto la natura umana. Accanto alla celebrazione della nascita del Salvatore, il presepe, soprattutto quello napoletano con i suoi numerosi personaggi e simboli, raduna attorno all’evento dell’Incarnazione l’intera società.
La scena della Natività, con il suo ricco apparato artistico — dalle cascate ai mestieri, dalle figure popolari alle atmosfere quotidiane — non richiama soltanto un tempo passato: invita e coinvolge anche il nostro presente, convocando il mondo di oggi davanti al mistero che raffigura.
Emblematici sono i personaggi — spesso chiamati impropriamente “pastori” — che popolano il presepe contemporaneo. Tra i vicoli di Napoli, cuore pulsante dell’arte presepiale, non è raro incontrare nelle botteghe e sulle bancarelle figure che rappresentano calciatori del Napoli, politici, cantanti e attori famosi. Il presepe, in questo senso, funziona come una straordinaria macchina del tempo capace di mescolare stili, epoche e storie, trasformandosi non solo in uno spazio sacro, ma anche in uno strumento sociologico per leggere la società del proprio tempo. Questa forma di “dissacrazione” — la contaminazione dell’immagine sacra con elementi profani — è un tratto tipicamente partenopeo: nella religiosità popolare campana, sacro e profano convivono, talvolta in tensione, in certe circostanze in equilibrio, ma sempre come parti integranti della stessa esperienza umana e spirituale.
In questo pantheon di personaggi e stili, ogni figura ha un ruolo e un significato: la zingara, Benino, il pescatore, la lavandaia, il pastore della meraviglia… ciascuno rappresenta un atteggiamento dell’umanità di fronte a un evento che ha fatto irruzione nella storia e si è fatto carne: Dio è venuto ad abitare tra gli uomini.
Per comprendere appieno il significato di queste figure, bisogna risalire alla tradizione settecentesca della corte del Regno di Napoli. Carlo III di Borbone, e successivamente il figlio Ferdinando (forse influenzati, anche questa volta, da padre Gregorio Maria Rocco, lo stesso che suggerì al re l’utilizzo delle edicole votive per illuminare i vicoli di Napoli), si circondarono dei più grandi artisti dell’epoca per dare vita a capolavori presepiali di incomparabile bellezza e complessità, alcuni dei quali sono ancora oggi conservati nei palazzi reali di Napoli e nella splendida Reggia di Caserta.
Il “presepe o presepio” continua ancora oggi a entrare nelle case dei napoletani con lo stesso spirito di un tempo, tra tradizione, cura e devozione. Non sorprende che Eduardo De Filippo, nella celebre opera Natale in Casa Cupiello, lo abbia scelto come metafora centrale dell’intera vicenda teatrale, lasciandoci una delle domande più iconiche della cultura napoletana: «Lucarié, t’ piace ’o presepe?».
Forse in tutta Europa non esiste un fenomeno con un valore così peculiare: religioso, simbolico, festivo, ma soprattutto sociologico. Il presepe è lo specchio della società, dei suoi problemi, delle sue speranze, delle difficoltà che gravano sugli ultimi, rilette alla luce di un Dio che assume la carne umana e viene a salvarci. Non è solo una consuetudine, una tradizione artistica o un gioco in cui folclore e meraviglia si incontrano: è l’espressione orante di un popolo che, anche accanto all’albero colmo di regali — simbolo del consumismo moderno — mantiene viva la propria fede nelle case.
È una tradizione che si trasmette di generazione in generazione, senza esaurirsi mai: ogni anno si aggiunge o si ripara qualcosa, ci si prende cura del presepe come di un bene prezioso. E anche chi, forse, è più pigro nel partecipare alla liturgia della Notte di Natale, vive comunque il rito semplice e antico dell’attesa della mezzanotte, quando Gesù Bambino viene deposto nella mangiatoia.
Queste forme di pietà popolare diventano così seminatrici di speranza per le nuove generazioni. La tradizione custodisce una fede che, pur contaminata da mode e tendenze, continua a resistere. Interpreta e rilegge la società: tutti facciamo parte di un grande presepe, con le nostre difficoltà e le nostre esigenze. Sembra volerci ricordare proprio questo: che tu sia Benino o il pescatore, che tu sia vicino alla natività o lontano, oggi Cristo nasce anche per te. Indipendentemente dal pastore in cui ci identifichiamo, tutti contribuiamo a rendere unico e irripetibile l’evento che il presepe mette in scena. Esso rimane un segno prezioso della spiritualità di un popolo, un oggetto simbolico capace di tenere insieme fede e speranza, sacro e profano, ricerca del bello e desiderio di verità — attraverso l’arte e attraverso gli occhi della fede.
Lucariè ti piace o presepe? Si papà, mi piace!
