GIAN PAOLO BORTONE – DIO DELLA GUERRA, DIO DELLA PACE

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Premessa di attualità

Le tremende immagini che da Israele rimbalzano sui media in questi giorni ci lasciano sbigottiti. La spirale di violenza sembra aggrovigliarsi senza soluzione di continuità attorno a torti, vendette, cause prossime e cause remote, richiami alla complessità che però alimentano esclusivamente una narrazione polarizzata, dialettica, una contrapposizione che non lascia intravedere spiragli di pace. Questa situazione (e quella del conflitto in Ucraina che ormai ci trasciniamo da oltre un anno) mette in evidenza anche una radicale incapacità della società contemporanea di stabilire condizioni di convivenza e modalità di risoluzione dei problemi ispirate a modelli e valori razionali. Quella grande promessa e speranza rappresentata dal pensiero illuminista sembra essere entrata definitivamente in crisi (ma già Horkheimer e Adorno in La dialettica dell’Illuminismo e il pensiero debole del recentemente scomparso Gianni Vattimo ne avevano messo in evidenza le crepe e il potenziale carico di violenza) di fronte alla liquefazione di un modello univoco di società e all’emersione di pluralità di soggettività, proposte, tradizioni, forme di strutturazione sociale, convivenza e perfino di razionalità. A complicare ulteriormente il quadro, si aggiunge un duplice riferimento alla questione religiosa: da un lato, proprio i motivi religiosi sembrano essere una delle cosiddette cause remote del conflitto, un ostacolo fondamentale che ha reso impossibile ogni tentativo di convivenza civile; dall’altro, in maniera per lo meno paradossale, i valori religiosi della convivenza, della pace, della fraternità diventano una piattaforma comune alla quale si fa appello per la ricerca di una soluzione civile e pacifica della situazione.

Queste brevi, parziali e assolutamente non sistematiche riflessioni rispondono a un interrogativo didattico: il Dio del primo testamento è un Dio della guerra o un Dio della pace?

Premessa ermeneutica

Quando si legge la Bibbia, non bisogna avere la pretesa di rintracciare al suo interno un prontuario di risposte buono per tutte le stagioni. Per due motivi: quello più ovvio è che il testo biblico è un testamento, una fotografia, un’eredità che porta impressi i segni del tempo, della cultura, della lingua con cui è stata raccontata l’esperienza di Dio rendendola irrimediabilmente unica ma, allo stesso tempo, irrimediabilmente parziale. Come se non bastasse, nella Bibbia si incontrano e si confrontano, poi, la fede, la cultura, la lingua di più generazioni che hanno accolto, tramandato, ripensato e riscritto, a seconda delle mutate esigenze storico sociali, quell’esperienza. Ogni segmento di questa storia, quindi, aggiunge un grado di separazione. Ma qui subentra il secondo motivo, meno ovvio perché controintuitivo: ognuno di questi gradi di separazione è, a sua volta, condizione di possibilità perché quell’esperienza possa essere comunicata e, in questa dinamica trasmissiva, diventa esso stesso una nuova autentica esperienza. Quella storia non rimane quindi un pezzo da museo a cui essere feticisticamente attaccati, ma diventa un testo vivo che si offre alle successive letture, persino alle successive manipolazioni, proprio nella misura in cui queste letture sono radicalmente “nuove”. Non ritorno sull’etimologia di «rivelazione» perché è stata trattata, come dice Fossati, «da altri meglio che da me». Basta ricordare quanto con acume messo in evidenza da padre Beauchamp: la Bibbia è «parola seconda». Innanzitutto, perché ha avuto una lunga e travagliata storia redazionale, ma ancora di più, perché è un testo capace di «intimare» qualcosa al lettore odierno che vi scorge qualcosa di «intimo». Da questo punto di vista, possiamo dire che il movimento diacronico di redazione e trasmissione si sia generato anche a partire dalle potenzialità sincroniche del testo stesso (o meglio: dei testi).

Il Dio della guerra

Uno dei pionieri della ricerca biblica, J. Wellahusen, ha scritto che il primo santuario in cui Israele ha celebrato YHWH è stato il campo di battaglia. Qualche anno più tardi Von Rad ha rintracciato in alcuni racconti dei cosiddetti libri storici (che storici non sono) le caratteristiche (le forme) proprie del genere letterario della «guerra santa». Senza voler togliere nulla a Von Rad, dobbiamo annotare, però, che l’espressione è assente nella Bibbia. E che, comunque, il valore semantico di cui questa espressione si è colorata all’interno della storia non la rende completamente sovrapponibile all’esperienza che emerge dalla Bibbia. Il Dio di Israele, però, è anche indiscutibilmente un Dio che combatte e invita a combattere. C’è una vasta letteratura che cerca di analizzare i problemi storico-letterari e teologici di questi libri, per cui non mi soffermo oltre. Mi limito a osservare che, mai come in questo caso, il genitivo possessivo del sintagma «Dio di Israele» sia illuminante. Il Dio che invita alla guerra è proprio il Dio “di Israele”, ossia quella immagine di Dio prodotta da una particolare ideologia che lega l’identità del popolo alla sua elezione. Israele, tra tutti i popoli, è stato scelto da Dio che lo ha reso destinatario di una speciale alleanza che lega esclusività e co-appartenenza al dono della libertà e della terra. Una promessa che spesso e volentieri fa a pugni con la storia di dominazione con cui Israele ha fatto i conti e che ha alimentato, d’altra parte, i sogni politico-espansionistici dell’epoca di Giosia. Quindi, non stiamo parlando di Dio. Piuttosto abbiamo a che fare quindi con un’immagine di Dio, quello che nel linguaggio biblico è chiamato «un idolo». L’idolatria è, da sempre, il grande pericolo che Israele deve fuggire. La lotta contro l’idolatria, però, non è solo all’esterno, contro le divinità dei popoli limitrofi. È anche interna, nella tentazione di costruirsi un’immagine di Dio a misura dei propri bisogni. In questo senso, quello del vitello d’oro (della costruzione, cioè, da parte del popolo di un dio a misura dei bisogni del momento: un dio che nel deserto rimanda alla vita, alla fertilità, alla ricchezza) è davvero un racconto fondatore.

La pace di Dio

Quella concezione di Dio ha fatto i conti con l’esperienza di radicale fallimento dell’esilio, in cui Israele si è ritrovato senza nessuna sicurezza umana (di quelle che all’epoca erano riconosciute come tali): nessuna terra; nessun re; nessun tempio. Un vero e proprio deserto che, però, ha promosso un cammino di purificazione dell’immagine di Dio fino a teorizzare il rifiuto di ingabbiare quel Dio in categorie umane o nella pronuncia codificata di nome, come dimostra la pratica della non corrispondenza grafica – fonetica del Tetragramma. Non a caso, proprio la prima pagina della Bibbia, quasi fosse un portale di ingresso per il lettore che apre il libro, presenta un’immagine di Dio davvero molto diversa, una vera e propria contro-memoria. Il concetto di memoria culturale è complesso. Il primo a parlarne e a studiarlo è stato M. Halbwachs all’inizio del XX secolo. La contro-memoria è una rilettura di una tradizione del passato con finalità polemiche, più spesso come una forma di attualizzazione della tradizione alle mutate condizioni storico, sociali e religiose. La vitalità della memoria si manifesta in maniera più decisa proprio nel momento in cui si cristallizza: essa, infatti, non diviene semplicemente ricordo di quello che era, ma, nel momento in cui si sedimenta, diventa anche tradizione e quindi, in un certo senso, traduzione, senza che questo movimento sia vissuto come una forma di tradimento. Nella storia di Israele questi elementi della memoria sono importantissimi: da un lato, infatti, il Tempio ha rivestito una centralità e una funzione mnestica e identitaria innegabile; potremo dire che la fede e l’identità dell’Israele pre-esilico ruotavano attorno al quadro di memoria spaziale del Tempio; quando questa centralità è entrata in crisi e scomparsa, ha provocato la necessità di un profondo ripensamento. L’esilio, infatti, ha rotto drammaticamente il quadro di memoria attorno al quale era cresciuta, stabilita e pensata l’identità di Israele, provocando due conseguenze: da un lato, la necessità di dislocare su un piano temporale quanto prima era orientato su un piano spaziale. In pratica, le nuove condizioni storico-sociali hanno costretto Israele ad ancorare la propria fede dalle coordinate dello spazio a quelle del tempo. In secondo luogo, l’urgenza di cristallizzare per iscritto la memoria delle tradizioni in modo da non perderle e, con esse, non perdere l’accesso al passato. Proprio in questo contesto nascono le Scritture. Gen 1, nella sua posizione di prima parola che si offre alla lettura, ma anche di parola seconda che riprende e riscrive la tradizione precedente, è esattamente una memoria di questa doppia transizione in cui, dopo la distruzione del Tempio e l’esilio, Israele avrebbe cercato di ancorare ricordi precedentemente associati spazialmente al Tempio a un elemento temporale (il sabato), in un processo di creazione di un nuovo quadro di memoria collettiva in cui il passato non è semplicemente recuperato come una datità oggettiva intoccabile, ma viene ripreso e reinterpretato. In definitiva, ricostruito. Se, infatti, l’intero AT può essere visto come un’antologia di ricordi condivisi dell’antico Israele, questo vale a maggior ragione per il libro della Genesi che, non a caso, nei Targumin palestinesi è chiamato «Libro dei ricordi». Il primo racconto della creazione di Gen 1 rappresenta, quindi, una contro-memoria mitica del racconto della creazione di Gen 2 ma, allo stesso tempo, una contro-memoria dell’immagine di Dio di Israele.  Egli è il Signore della creazione, ma esercita questa signoria con la mitezza della sua parola (anche il significato di barà, il verbo utilizzato per descrivere la creazione, rimanda a questa dimensione). Egli è anche il Signore della storia che inizia proprio grazie alla creazione delle luci che, distinguendo notte e giorno, scandiscono il tempo. Questa signoria, però, non è finalizzata al dominio, ma grazie alla mitezza della parola, corre verso il sabato che, nella misura in cui sospende il ritmo e la struttura letteraria del testo, segna una rottura, una sospensione del ciclo produttivo dell’uomo per aprirsi alla gratuità, al riposo, alla pace (termine etimologicamente assente nel testo, ma che è fortemente implicato nella celebrazione del sabato come giorno del riposo, della salvezza, di quella vita buona e piena che in Dio trova la sua sorgente e che a Dio rimanda). Questa contro-memoria di Dio diventa ancora più evidente se si avvicina il brano del diluvio universale. Giustificato dal male che avevano riempito la terra (Gen 6,5-6), l’episodio del diluvio universale diventa un punto di rottura per Dio stesso che unilateralmente decide di non colpire più l’uomo nonostante il male e la violenza facciano parte dell’uomo. E questo atteggiamento di mitezza diventa un manifesto ideale consegnato all’uomo proprio nel momento in cui Noè riceve la nuova benedizione e il compito di dominare su tutte le creature. È il manifesto di un dominio che non si declina come violenza, ma sollecita le dimensioni della responsabilità, della fraternità, della ricerca del dialogo, della pace. Tutta la Genesi, infatti, è un racconto di relazioni segnate dalla violenza e dalla morte, ma che possono essere ricostruite e aprirsi alla vita e alla generatività, abbracciando la logica della mitezza (la storia di Giacobbe in tal senso è paradigmatica) e costruendo, come insegna la storia di Giuseppe, una nuova fraternità nella pace.