Ernesto Cardenal, esempio di fedeltà ribelle

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di Claudia Fanti

A cinque anni dalla sua scomparsa o, come dicono in America Latina, dalla sua «semina», il ricordo di Ernesto Cardenal, spentosi il primo marzo del 2020 all’età di 95 anni, è ancora molto vivo, e non potrebbe essere altrimenti. Il sacerdote nicaraguense è stato infatti molte cose: poeta, sacerdote, rivoluzionario, ministro della cultura del governo sandinista ed esponente di rilievo della Teologia della liberazione, ma soprattutto, uno straordinario esempio di fedeltà ribelle. Perché è solo per fedeltà ai principi del sandinismo che il poeta in sandali e basco nero non aveva esitato a rompere con Daniel Ortega, accusato di tradimento degli ideali della rivoluzione del 1979, così come è per fedeltà allo spirito della Teologia della liberazione che era stato sospeso a divinis da Giovanni Paolo II, nel 1985, in seguito al suo rifiuto di dimettersi dalla carica di ministro della Cultura nel governo rivoluzionario.

Una ferita, quest’ultima, che Ernesto Cardenal aveva sofferto in compagnia di altri due “ribelli”: il fratello e ministro dell’Educazione Ferdinando, scomparso nel 2016, e il ministro degli Esteri Miguel d’Escoto, spentosi l’anno successivo, tutti e tre convinti sostenitori della necessità di mettersi al servizio del Paese di fronte alla tragica carenza di quadri intellettuali riconducibile all’analfabetismo endemico in cui il Nicaragua era precipitato sotto la sanguinosa dittatura di Somoza. 

Incurante delle macerie materiali e morali da cui aveva preso avvio la rivoluzione sandinista, come, più tardi, dell’implacabile aggressione scatenata dai contras finanziati dagli Stati Uniti, il Vaticano non aveva tuttavia voluto sentir ragioni: avrebbe fatto il giro del mondo l’immagine, tanto amara quanto impossibile da dimenticare, di Ernesto Cardenal inginocchiato davanti a Giovanni Paolo II, in visita – era il 1983 – nel Nicaragua rivoluzionario, e il dito del papa, «come fosse un bastone», puntato severamente contro di lui, colpevole di aver accettato l’incarico di ministro. «Deve regolarizzare la sua situazione», aveva insistito due volte il papa polacco di fronte alle telecamere di tutto il mondo, benché, come chiarito dallo stesso Cardenal, i tre sacerdoti fossero stati autorizzati dagli stessi vescovi a ricoprire incarichi di governo. Pochi mesi più tardi sarebbe arrivata la punizione di Roma.

Giovanni Polo II, avrebbe commentato in seguito il teologo, era convinto che il Nicaragua fosse una “seconda Polonia”, un regime «anticattolico in un Paese a maggioranza cattolica, e pertanto impopolare». Quello che il papa neanche lontanamente concepiva era «una Rivoluzione appoggiata massicciamente dai cristiani come era la nostra, in un Paese cristiano, e dunque una Rivoluzione molto popolare». E, «peggio ancora», «una Rivoluzione con dei sacerdoti». Così, aveva creduto che fosse sufficiente «che egli parlasse contro la Rivoluzione dei sandinisti per avere l’appoggio massiccio della piazza. Era venuto in Nicaragua per destabilizzare la Rivoluzione. Se il papa non si fosse sbagliato, la notizia sarebbe stata che il popolo nicaraguense rifiutava la Rivoluzione. […] Ma siccome il popolo difese la Rivoluzione e rifiutò il papa, la notizia mondiale fu “l’affronto fatto al papa in Nicaragua”».

La grande tribolazione

Era già in atto da tempo, del resto, la guerra contro la Teologia della liberazione, una riflessione condotta a partire dalla realtà e concretamente dalla realtà della povertà, interpretata con l’ausilio delle scienze sociali e dell’analisi marxista della realtà storica – benché svincolata dai suoi presupposti filosofici atei – e affermata come contraria al piano di Dio e come conseguenza di strutture di peccato, di relazioni sociali di ingiustizia e di oppressione.

Non per niente, la Teologia della liberazione aveva subito messo in allarme i centri più sensibili del potere civile e religioso: «Se la Chiesa latinoamericana applica gli accordi di Medellín, gli interessi degli Stati Uniti in America Latina si trovano in pericolo» (Rapporto Rockefeller); «La politica estera degli Stati Uniti deve iniziare ad affrontare (e non semplicemente a reagire in un secondo momento) la Teologia della liberazione così come viene utilizzata in America Latina dal clero della Tdl» (Documento di Santa Fe, sotto la presidenza Reagan); «La Teologia della liberazione e le sue cellule (le CEBs) rappresentano una dottrina politica mascherata da credenza religiosa, con un significato antipapale e anti-libera impresa, destinata a indebolire l’indipendenza della società di fronte al controllo dello Stato» (Santa Fe II).

E se in Vaticano la Teologia della liberazione aveva ricevuto già attacchi fortissimi, la condanna sarebbe arrivata appena un anno dopo la visita del papa in Nicaragua, attraverso l’Istruzione su alcuni aspetti della Teologia della Liberazione (Libertatis nuntius) firmata nel 1984 dall’allora card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, la quale puntava il dito contro quella che veniva individuata come una pericolosa ideologizzazione della fede cristiana, ricondotta a un’assunzione acritica dell’analisi marxista all’interno del discorso teologico e tradottasi in particolare nella visione di una Iglesia popular intesa come “Chiesa di classe” in antagonismo con la Chiesa ufficiale e gerarchica.

Ed era proprio nel ricorso agli strumenti marxisti dell’analisi sociale ed economica del capitalismo che veniva individuata la radice di un’interpretazione della fede cristiana «che si discosta gravemente dalla fede della Chiesa, anzi ne costituisce la negazione pratica», tale da comportare «un pericoloso amalgama fra il povero dello Scrittura e il proletario di Marx; la sostituzione dell’ortoprassi all’ortodossia; l’affermazione della necessità della violenza rivoluzionaria per il rovesciamento delle strutture generatrici di ingiustizia; l’assorbimento del Regno di Dio nell’immanenza della storia umana».

L’Istruzione avrebbe suscitato molte critiche in tutto il mondo. Tant’è che ne sarebbe seguita due anni dopo, nel 1986, una seconda dai toni più morbidi, dal titolo “Libertà cristiana e liberazione” (Libertatis conscientia), in cui da una parte si ribadiva la validità dei principi della Dottrina sociale della Chiesa, sottolineando la necessità di fare «anzitutto appello alle capacità spirituali e morali della persona e all’esigenza permanente della conversione interiore», per «ottenere cambiamenti economici e sociali che siano veramente al servizio dell’uomo» e, dall’altra, non si escludeva «la necessità di un cambiamento delle strutture sociali ingiuste». Anche se ciò non avrebbe impedito comunque alla Curia romana di contrastare in ogni modo la Chiesa della liberazione latinoamericana, perseguitandone le personalità più rappresentative, più originali e più forti,  tanto tra i vescovi quanto tra i teologi.

Sarebbe poi stata la stessa Chiesa istituzionale a fare propria l’opzione per i poveri, ma nella versione fortemente addomesticata di un’opzione solo “preferenziale”, quanto mai lontana dall’impostazione originaria della Teologia della liberazione, che, lungi dal confondere l’opzione per i poveri con una semplice preferenza di Dio verso i piccoli e i deboli, la riconduceva al campo della giustizia, dove Dio doveva essere necessariamente e inflessibilmente parziale.

L’abbandono del Fronte sandinista

Le strade dei tre sacerdoti-ministri, i fratelli Cardenal e Miguel D’Escoto, si sarebbero poi divise: dopo la sconfitta della rivoluzione e la crisi del sandinismo, solo d’Escoto sarebbe rimasto nel Fronte (ricoprendo anche la presidenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dal 2008 al 2009), mentre, insieme a Ferdinando, Ernesto lo avrebbe abbandonato, nel 1994, in polemica con la gestione autoritaria del partito da parte di Ortega e con l’appropriazione dei beni dello Stato da parte dei leader della ex-guerriglia. Poi, dopo il suo ritorno al potere nel 2007, il poeta sarebbe diventato uno dei suoi maggiori critici, fino ad accusarlo di terrorismo e ad invocare apertamente le sue dimissioni: «Vogliamo semplicemente che la coppia presidenziale (Ortega e sua moglie Rosario Murillo, ndr) se ne vada, non c’è possibilità di dialogo», aveva affermato nel 2019, denunciando la repressione delle proteste anti-governative.

Ma già nel 2015, in occasione del lancio del progetto di costruzione del Grande canale interoceanico – un’opera faraonica, dal costo previsto di 40 miliardi di dollari, che, se fosse stata realizzata, avrebbe tagliato il Paese a metà, da est a ovest, spezzando la continuità ecosistemica del corridoio biologico mesoamericano – Cardenal si era scagliato con forza contro il governo, in un articolo significativamente intitolato “La mostruosità del canale interoceanico”, denunciando che l’eventuale distruzione del lago Cocibolca – richiesta dal progetto – sarebbe diventato «il crimine più grande della storia del nostro Paese». E ancor prima, in vista delle presidenziali del 2006, Cardenal aveva firmato il Manifesto del Movimento Rinnovatore Sandinista che, contro il caudillismo di Ortega e il suo tradimento degli ideali rivoluzionari, invitava i veri sandinisti a non votare per lui.

«Noi, sandinisti da sempre – recitava il manifesto –, siamo stati esclusi di fatto o espulsi e bollati come indesiderabili e traditori perché non volevamo che morissero i nostri ideali, perché ci siamo opposti allo sporco patto con Arnoldo Alemán, perché esigevamo l’esercizio della democrazia interna, perché ci rifiutavamo di passare dalla direzione collettiva che ha caratterizzato e arricchito la nostra organizzazione al caudillismo oggi incarnato da Daniel Ortega». Era stato grazie al nefasto “Patto” del 2000 con Alemán, l’ex presidente che sarebbe stato condannato a 20 anni di carcere per corruzione, che Ortega, denunciava il manifesto, aveva co-governato di fatto il Paese, appropriandosi di quote di potere sempre maggiori fino a diventare, a giudizio dei suoi avversari, l’uomo più potente del Nicaragua.

Una denuncia durissima quella degli esponenti storici del sandinismo, tra cui Carlos Mejía Godoy, il grande cantore della rivoluzione, l’autore di alcune delle più belle canzoni di lotta latinoamericane, nonché della celebre Misa Campesina, scritta insieme a Cardenal: «Ortega e i suoi uomini – scrivevano – parlano di democrazia e reprimono chiunque dissenta dai dettati del segretario generale. […]. Parlano dei poveri mentre il vertice si arricchisce alle spalle del popolo. Parlano delle donne e mancano loro di rispetto».

Cristianesimo e marxismo: “Mai realizzati”

«Chesterton diceva che il cristianesimo non è fallito, non essendo mai stato messo in pratica. Io dico lo stesso del marxismo. Cristianesimo e marxismo si assomigliano in questo: non è che siano falliti, è che non sono stati ancora realizzati. E io resto cristiano e marxista», diceva il poeta nicaraguense. E fino alla fine non avrebbe mai perso la sua fede rivoluzionaria: «La rivoluzione è ciò che ci rende umani. Tutta l’umanità è vissuta di rivoluzione in rivoluzione. Tutto ciò che ha acquisito, è stato per mezzo della rivoluzione».

Almeno con la Chiesa, tuttavia, un lieto fine c’era stato: come già era avvenuto nel 2014 per Miguel d’Escoto – Fernando era stato riammesso già nel 1996, dopo un anno di noviziato, nella Compagnia di Gesù –, anche Ernesto era stato infine riabilitato da papa Francesco, il quale, nel febbraio del 2019, aveva deciso di revocare «tutte le sanzioni canoniche» che pesavano su di lui. Come pure aveva avuto parole di incoraggiamento per il gesuita salvadoregno Jon Sobrino e invitato Leonardo Boff, tra i padri fondatori della Teologia della liberazione e tra i più duramente perseguitati dal Vaticano, a collaborare alla stesura della storica enciclica Laudato si’ «sulla cura della casa comune», nel cui testo è facile cogliere molti accenti direttamente riconducibili alla riflessione del teologo sul duplice grido dei poveri e del «grande povero» che è il nostro pianeta devastato e ferito.

Con Francesco sarebbe finito insomma l’assedio implacabilmente mantenuto contro gli esponenti della Teologia della liberazione durante i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI: quel “ritorno alla Grande Disciplina” – come lo aveva definito il teologo João Batista Libânio -, che si era espresso attraverso una radicale svolta a destra del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano), il commissariamento della Clar (Conferenza dei Religiosi Latinoamericani), l’emarginazione dei vescovi che si riconoscevano nella linea di Medellín, lo smantellamento del lavoro pastorale da essi condotto ad opera di successori di linea diametralmente opposta.

Cosicché non poteva certo sorprendere che, per coloro che erano stati posti sotto vigilanza, ammoniti, emarginati nelle loro comunità, spogliati del diritto a esercitare il ministero della parola, allontanati dalle loro cattedre o sottomessi a processi dottrinari, l’avvento di papa Francesco fosse vissuto come una sorta di ritorno a casa.

«Mi sento identificato con questo nuovo papa. È meglio di quanto avremmo potuto sognare», aveva non a caso affermato il poeta e rivoluzionario nicaraguense, cofondatore, nel 1966, della comunità religiosa di Solentiname, su un’isola nel Lago Nicaragua, dove sarebbe stato seppellito, e dove aveva predicato la non-violenza appresa da Thomas Merton, suo maestro di novizi nel monastero trappista di Gethsemani, in Kentucky, dal 1956 al 1959.

“Idrogeno innamorato”

Merita di essere ricordata tuttavia anche la sua opera poetica, anch’essa dominata dall’impegno rivoluzionario. Una poesia accessibile a tutti, impegnata e militante, soprattutto a favore  della lotta degli indigeni, ma anche in grado di volgere lo sguardo all’universo. Come mostrano i versi immortali del suo straordinario Canto cosmico, dove Cardenal, è stato detto, «porta la poesia nella scienza; fa della scienza poesia»: «Che c’è in una stella? Noi stessi. / Tutti gli elementi del nostro corpo e del pianeta / stavano nella viscere di una stella. / Siamo polvere di stelle. / 15 miliardi di anni fa eravamo un massa / di idrogeno che fluttuava nello spazio, girando lentamente, danzando. / E il gas si condensò sempre di più / con sempre più massa / e la massa si fece stella e cominciò a brillare. / (…) E torneremo a essere gas di stelle un’altra volta. / Idrogeno sarò, ma idrogeno innamorato».