Gli ultimi giorni dell’anno scolastico sono scanditi da verifiche e interrogazioni last minute all’insegna della speranza di evitare il debito (o, nel peggiore dei casi, la bocciatura) e da una serie di formalità burocratiche da evadere che, nonostante rappresentino un incubo di carte e scartoffie da preparare, tuttavia permettono di mettere ufficialmente un punto a tutte le attività dell’anno. E poi ci sono quelle piccole cerimonie che offrono l’occasione di un saluto più o meno dignitoso tra studenti e docenti, saluto che ha il sapore della definitività quando parliamo degli studenti del quinto anno (Nonostante quella fastidiosa appendice rappresentata dall’esame di maturità ;-)).
La consuetudine del selfie
Nell’epoca dei social una di queste cerimonie è l’imperdibile selfie di fine anno. Una pratica che sembra moderna, ma che ha i suoi antecedenti anche molti anni fa, quando gli studenti erano immortalati, tra l’inebetito e il rigor mortis, accanto ai professori e al preside, in alcune foto che poi sarebbero state esibite lungo i corridoi dell’istituto. Ogni volta che gli studenti mi propongono di fare un selfie, mentre tento inutilmente di sfuggire al karma che mi fa venire irrimediabilmente brutto, con la faccia da punto interrogativo o da cretino (il più delle volte le due espressioni si fondono a formare una combo micidiale) mi viene in mente una scena di un film cult per quelli della mia generazione: L’attimo fuggente. È la prima lezione in cui il professor Keating si presenta ai suoi allievi portandoli a vedere le foto degli studenti degli anni passati. Guardando quelle foto, gli studenti possono udire una voce che dice loro: carpe Diem!
Ora, senza entrare troppo nel merito della traduzione e della filosofia del Carpe Diem, possiamo dire che esso è molto più di un invito godereccio a viversi la vita, ma una riflessione esistenziale su quanto riusciamo a vivere il presente, non farcelo scivolare via dalle mani perdendone i tesori che misteriosamente custodisce… L’esperienza che spesso si fa in classe è quella di uno sfasamento: ragazzi che non seguono la lezione perché devono ripetere come automi per l’interrogazione; interrogazioni che arrivano, magari fuori dalla classe, mentre ci sono altre lezioni… C’è un differimento del tempo presente che aumenta il carico di lavoro dello studente o della studentessa, costretto a vivere ossessivamente fuori tempo.
Ma che vuol dire ascoltare le voci? È solo suggestione?
A scuola di ascolto da Socrate
Per capirlo andiamo a scuola da quello strano tipo di insegnante che è stato Socrate. Innanzitutto dobbiamo dire che Socrate era un provocatore, uno che dava del cretino, in maniera più o meno esplicita, al proprio interlocutore senza temere di essere menato dall’altro. Oggi con tutti questi studenti permalosi che ci tengono a immortalare la loro infermità mentale mentre aggrediscono i prof; o peggio ancora: con i genitori aggressivi che abbiamo, non so quanto il povero Socrate avrebbe avuto vita facile. Nella Grecia, invece, poteva permettersi di essere un provocatore senza rischiare di essere toccato, perché una delle principali virtù virili (una virtù che distingue chi è uomo da chi è ancora un bambino, un lattante capriccioso) era la cosiddetta parresia, ossia la capacità, in primo luogo, di dire quello che si pensa in maniera onesta, ponderata, senza aver paura del proprio pensiero, accogliendone le responsabilità e, dall’altra parte, di sostenere con calma la conversazione, il litigio, la dialettica e il pensiero dell’altro senza andare in escandescenze, ma con disciplina delle emozioni e rigore intellettuale.
Socrate è uno sfrontato antieroe. Vive in un tempo di crisi delle istituzioni e dell’educazione degli ateniesi che erano sempre più attratti dai discorsi dei retori che sollecitavano gli istinti e le paure del popolo, riscuotendo facili applausi con argomentazioni strappamutande che, purtroppo per Atene avrebbero portato alla guerra del Peloponneso, alla fine della Repubblica, al periodo del terrore dei 30. Socrate, invece, oltre a sfidare dialetticamente ogni suo interlocutore, aveva quella strana abitudine a fermarsi a pensare, a riflettere con se stesso: un po’ come il mitologico padre Alfio di Un sacco bello che nel cespuglio del suo piccolo Getsemani, alla madre, donna di grande comprensione, che lo cercava, aveva risposto: mamma, non vedi che sto parlando con me stesso? Anche Socrate si imbambolava, fermandosi a riflettere su cosa fosse realmente bello, giusto, saggio… Era una cosa che avveniva nei luoghi della città e che lo esponeva alle ironie e allo sberleffo dei suoi cittadini che oltre a canzonarlo (Aristofane lo rappresenta un po’ strampalato, sospeso in aria su una cesta nell’opera Le Nuvole), sostenevano che avesse un demone (daimon). Socrate parlava con sé stesso, con una voce interiore che ascoltava e che gli altri, persi nei rumori della polis, invece, non riuscivano a sentire.
Quello sfrontato di Socrate fu accusato di pervertire i costumi e la moralità dei giovani e fu condannato a bere la cicuta. E qui venne il suo secondo colpo di genio: anche se poteva scappare e sottrarsi a questo destino, Socrate preferì morire trasformando il momento della morte da qualcosa di fisico-biologico dominato dalla necessità, in un’esperienza di libertà e autodeterminazione del soggetto. Questa dimensione della morte non solo è straordinariamente moderna (basti pensare alla discussione sul fine vita, ma meno prosaicamente anche a come la morte è stata oggetto di riflessione negli esistenzialisti dell’Ottocento e del Novecento), ma è presente perfino nei vangeli. Le ultime parole di Gesù, infatti, cambiano da vangelo a vangelo. Gesù muore in maniera diversa. In linea generale possiamo dire che la drammaticità (forte nel primo vangelo, quello di Marco) va via via affievolendosi per trasformarsi in serena accettazione e in missione nel vangelo di Giovanni. In quest’ultimo, infatti, Gesù prima di morire dice: «tutto è compiuto». In realtà, il verbo utilizzato, tetelestai (che deriva da teleo) era una frase idiomatica utilizzata alla fine di un lavoro («ho finito»; «ce l’ho fatta»). Ma non si arriva a interpretare la propria morte in maniera così volitiva, se non si è stati in ascolto di altro (o dell’Altro) durante la vita. E Socrate (ma anche Gesù) ci dicono che per farlo, occorre estraniarsi dai rumori della città e ascoltare la propria interiorità, prendersene cura. D’altronde, prima ancora di domandare il proprio futuro a Dio, i greci ammonivano: gnoti seauton (conosci te stesso)! E non è un caso che nell’Apologia Socrate porti avanti la propria linea difensiva a partire da l’oracolo di Delfi che lo aveva indicato come l’uomo più sapiente del mondo. Ma che tipo di sapienza? e si può rinunciare a ciò che si è per salvare la propria vita?).
La strategia di Platone
Uno dei discepoli di Socrate, Platone, memore dell’insegnamento del maestro, ma anche degli sberleffi a cui era sottoposto aveva capito che occorreva costruire un luogo alternativo che spezzasse il continuum spazio temporale della quotidianità e che realizzasse uno spazio in cui tutti potessero prendersi una pausa dalle preoccupazioni di tutti i giorni e ascoltare la propria voce, mettendosi in contatto con quella dimensione interiore altrimenti sepolta sotto il rumore della polis. Fonda l’accademia che prende il suo nome dal bosco sacro vicino alla città di Atene e che diventa, quindi, un luogo-altro rispetto ai luoghi normali, separato da essi, eppure connesso in maniera diversa, altra.
La scuola non è utopia
La scelta di Platone dovrebbe orientare il modo con cui noi guardiamo alla scuola. Molto spesso siamo tentati di pensare alla scuola come un mondo ideale, come un’utopia. Nella cultura europea l’utopia ha sempre esercitato un certo fascino, dal punto di vista politico, architettonico, morale… Ma le abbacinanti utopie spesso si sono tradotte in lancinanti fallimenti che hanno rovesciato o tradito del tutto i sogni dell’uomo. La scuola come luogo dell’utopia non esiste, come pure ci conferma l’etimo della parola. La scuola è, riprendendo una lezione di Foucault, una eterotopia, un luogo altro che, pur essendo connesso a tutti gli spazi della vita normale, permette la sospensione del continuum del quotidiano. La scuola non appartiene al mondo ordinario e non si deve piegare alle sue logiche solitamente dominate dalla logica aritmetica dello scambio: è un luogo di sospensione in cui una comunità decide di prendersi cura di sé, di ascoltare quelle “voci leggere”, ma decisive, che altrimenti sarebbero travolte dal baccano quotidiano. La scuola è un’esperienza paradigmatica di eterotopia che ricorda all’uomo la necessità, quasi un comandamento supremo, di continuare a prendersi cura di sé, praticando il silenzio, l’attenzione ai dettagli, la ricerca del senso, della bellezza, della verità, della giustizia… La scuola come eterotopia è un luogo rivoluzionario che sfida quella concezione della società all’insegna della stretta connessione utilitaristica tra azione e risultato che riduce l’uomo a mero ingranaggio di un sistema che gli concede solo pause, come fossero turni di riposo dal lavoro. Prendersi cura di sé significa, allora, recuperare quelle dimensioni di bellezza, interiorità, spiritualità, ricerca che, rappresentando un’evasione dal circolo produttivo, ci caratterizzano veramente come uomini. Possibilmente, liberi e felici! Buon ultimo giorno di scuola e buone vacanze.