di Pasquale Arciprete
Parto da una Premessa di ordine, per così dire, ‘metodologico’. Qualunque dibattito riguardante le ricadute storico-concrete indotte da fedi e credenze religiose non può non comportare valutazioni comparate tra le varie religioni e spiritualità via via poste a confronto, in una operazione di discernimento che risulta quindi inevitabile. Attenti però a non far mai assumere alle proprie pur legittime argomentazioni il rango di giudizi di valore, per cui alla fine ci si ritrovi a emettere valutazioni fin troppo semplificanti su grandi religioni universali oppure si giunga a classificare diverse spiritualità differenziandole tra ‘buone’ e ‘cattive’: in questo caso, si avrebbe un effetto controproducente alla finalità positive del dibattito stesso che – almeno, così mi auguro – si propone di incrementare mutua comprensione e coesistenza pacifica tra gli uomini, non certo di identificare la Religione a tutte superiore oppure, viceversa, rendere una sua qualche consorella colpevole di chissà quali misfatti storici. Un buon modo di intendere e praticare la discussione sarebbe a mio avviso distinguere, usando una terminologia già abbastanza diffusa tra studiosi della spiritualità, tra religioni più “dure” e più “morbide”, ovvero più o meno propense per intrinseche ragioni strutturali a dare vita a compatte configurazioni storico-comunitarie e/o a solidi apparati di potere: provvedendo in questo loro comune processo di traduzione politico-istituzionale da un lato a rafforzare identità, coesione e fratellanza tra le parti di umanità raccolte sotto la propria egida ma nel contempo inaugurando il rischio, che resta sempre compresente per ciascuna di loro, di aprire divisioni e scissioni con tutti gli uomini che invece sentono di appartenere ad altri “campi”, ossia a diversi ambiti e sfere cultural-spirituali.
Passo ora ad alcune considerazioni di ‘contenuto’: le tesi principali da me avanzate saranno poste in neretto.
Tutte le religioni sono passibili, nelle loro ali estreme e radicali, di interpretazioni e pratiche “fanatiche” (ovvero, si rivelano capaci di produrre, oltre che legami coesivi e fraterni tra gli uomini, anche divisioni, contrasti, conflitti violenti tra loro). Una tra le peculiari note esistenziali che ci contraddistinguono come esseri umani, è la ricerca di un qualche “senso” e significato superiore con cui avvalorare le nostre idee e comportamenti: condizione che emerge ogniqualvolta ci si sente compartecipi a Realtà ‘alte’, più grandi e importanti di quelle meramente umane. In questa prospettiva, l’apertura del rapporto tra l’uomo e il Sacro (l’Assolutamente altro “numinoso”, augusto, tremendum et fascinans), è relazione capace di dare come nessun altra piena risposta alla istanza umana di senso: ma per diventare poi pericolosa nelle sue ricadute politico-sociali allorquando i valori ideali-morali abbracciati dall’homo religiosus e in grado di dare risposta alla sua esigenza di significatività sono poi da lui interpretati e vissuti in modo esclusivo, come se fossero i soli e unici valori capaci di offrire a tutta l’umanità la soluzione vera e certa alla richiesta di cui sopra. In questo caso, agli occhi di un tale tipo di credente i propri simili che non aderiscono alla Verità che alimenta e forgia la sua vita (non solo quindi gli ‘infedeli’ e ‘miscredenti’, ma anche eterodossi ed eretici) cominciano ad assumere l’aspetto di esseri reprobi, una sorta di umanità inferiore che deve essere religiosamente convertita o politicamente “rieducata”, e l’apertura alla verità – propensione distintiva della sua spiritualità – tende a ridursi a possesso esclusivo della Verità unica per tutti, legittimandolo a diffonderla (se non proprio imporla) agli altri uomini con mezzi più o meno pacifici e persuasivi (missioni, predicazioni, integrazioni, conversioni più o meno forzate, invasioni, occupazioni). Ho iniziato di proposito a introdurre un lessico ‘politico’ oltreché religioso in quanto il problematico rapporto con la Verità sopra accennato sembra manifestarsi per tutte le posizioni ideologico-culturali rigidamente e univocamente ‘trascendentaliste’, ivi comprese quelle apparentemente laiche così diffuse in epoca moderna: non concerne quindi solo le religioni tradizionali, ma si fa valere anche per tutti gli “-ismi”, le Weltanschauungen e le visioni del mondo totalizzanti; insomma, ogniqualvolta si iniziano a usare le maiuscole non solo riguardo a Dio e ai Santi ma anche nei confronti di pur validi e importanti valori terreni (quali Purezza, Giustizia, Uguaglianza, Libertà, Ragione), i gruppi umani che fanno propri tali valori esistenziali-sociali (siano essi la Chiesa, l’Ummah, ma anche una semplice Setta, una Nazione, uno Stato, un Partito o un Movimento politico), possono nelle loro ali estremiste-radicali sentirsi portatori di una sorta di Scienza sociale e/o di Ragioni superiori non negoziabili che li spingono, incentivano e mobilitano a Missioni storiche assolute, e i loro membri iniziare a considerarsi esseri di natura e rango superiori abilitati dall’Alto a insegnare, far valere e imporre la propria posizione agli uomini comuni, in un atteggiamento storico ‘suprematista’ in cui illuminati “Figli della Luce” acquisiscono predominanza morale-culturale (e Potere a loro avviso del tutto legittimo) sui “Figli delle Tenebre”. Penso che in ogni tempo e luogo, e ancor oggi in età contemporanea, il connubio tra un gruppo umano “esclusivo” e una Verità superiore da far valere su tutti coloro che ‘osano’ mostrarsi refrattari ad essa sia stata il più potente veicolo di intolleranza, violenza e guerre ad intra e ad extra per qualunque comunità, credente o laica, che a un certo punto della sua storia si senta portatrice di Verità politico-sociale.
- Tornando ora alle grandi religioni tradizionali, in un giudizio complessivo e generale mi pare possibile sostenere che le tre grandi religioni abramitiche che hanno influenzato la spiritualità occidentale sono più passibili di derive fanatico-violente che non le loro consorelle “orientali”. Questo loro carattere (e attitudine storica) appare frutto del rapporto peculiare che esse hanno con la storia umana, a sua volta derivato dai primari tratti distintivi del Dio di Abramo: il Dio creatore-salvatore che si rivela agli uomini agisce nella e sulla storia umana, e la comunità da Lui scelta e che abbraccia la Sua rivelazione si sente chiamata a operare nel mondo più e meglio di qualunque altra associazione di uomini (è il tratto della cultura occidentale che l’ha resa capace più di tutte le altre di espandersi, penetrare e influenzare altre e diverse culture, con tutte le ambivalenti ricadute storico-culturali, positive e negative, di cui è di fatto portatrice ogni religione monoteista: universalismo e sentimenti di appartenenza a un unico genere umano contra frattura tra ‘vera’ e ‘falsa’ Religione e/o tra culture ‘superiori’ e ‘inferiori’; imperialismi e colonialismi correlati). Se quanto fin qui delineato ha una sua validità interpretativa, allora nel caso del nostro dibattito la categoria religiosa su cui più di tutte mi sembra opportuno porre l’attenzione al fine di provare a comprendere le innumerevoli derive storico-violente emerse (e che ancora oggi continuano ad emergere) nella storia occidentale sia quella di “Popolo eletto”, la comunità prescelta da Dio stesso per diffondere/far valere nella storia umana il suo piano di salvezza. Vengo così alle mie due tesi principali: nel corso della loro storia, tutte e tre le religioni abramitiche sono state costrette per intrinseche ragioni ‘strutturali’ a fare i conti con un ambivalente e problematico rapporto con gli uomini non (ancora) appartenenti alla vera religione dell’unico Dio della cui opera salvifica si sentono sole eredi e custodi e, a seconda delle varie e diverse fasi della loro storia (periodi di più o meno pacifica oppure entusiastica espansione, assestamento e concentrazione solo su se stesse, fasi di “riforma” e/o di propria evoluzione storico-dogmatica), esse hanno tradotto/declinato tale complessa relazione in indirizzi teorici e prassi storiche così variegati e diversificati da apparire addirittura ‘bi-polari’: tutte e tre infatti si sono mostrate capaci di passare dall’isolazionismo più rigido e accentuato al proselitismo più acceso, dalla missione umile e generosa alla aggressiva conquista armata, e di porre a modello comportamentale del credente esempi di devozione e martirio più o meno attivi e ‘militanti’, incitandolo a volte alla irriducibile resistenza passiva e talaltra al doveroso impegno personale (se non proprio alla lotta aperta e bellicosa) contro ogni tentativo storico di qualunque “miscredente” di provare a imporre una qualche sua insopportabile egemonia storico-politica. Insomma: allorquando, a seconda di tempi e luoghi diversi tra loro, si sono avute fasi e territori in cui sono prevalsi indirizzi o leader religiosi che hanno declinato il rapporto tra il Popolo “di Dio” e il resto dell’umanità in termini universalistici e spirituali, là si sono avute paci durature, collaborazioni proficue e maggiore coesione e integrazione tra gli esseri umani; quando invece il sentimento e la condizione di elezione sono stati fatti propri da fazioni perfezionistico-escatologiche che hanno legato la fede religiosa al concreto possesso di territori e/o si sono sentite chiamate alla mobilitazione attiva del vero credente alla salvezza storico-universale richiesta dal proprio Dio (e diventando proprio grazie a tali indirizzi e prassi storiche le guide riconosciute della propria comunità particolare), allora sono inevitabilmente emersi dissidi, conflitti e guerre fino alle espressioni escatologico-violente proprie della ‘guerra santa’, quel particolarissimo conflitto politico-morale teso alla completa e definitiva eliminazione del Nemico irredimibile che ha mostrato di poter emergere in tutte e tre le religioni abramitiche (“zeloti” ebraici, “crociati” cristiani, “jihadisti” islamici). Ma non vorrei qui allargare troppo il mio discorso quanto concentrarmi, così come richiedono i drammatici eventi dei nostri tempi e lo stesso andamento preso dal dibattito in corso, sul controverso caso di Israele.
- In prima approssimazione, le valutazioni espresse dal prof. Mancuso riguardo alla religiosità giudaica appaiono tutt’altro che peregrine: tra le tre grandi fedi abramitiche, la spiritualità ebraica appare la più propensa a lasciarsi tradurre in religione etnico-politica, tanto che non a caso (e sin dagli esordi della sua storia) è riuscita a dar vita a una peculiare comunità nazional-religiosa – Israele, appunto – portatrice di valori salvifici universali. Si tratta di un aspetto su cui in fin dei conti (e richiamando entrambi l’autorità di Joseph Klausner) concordano sia Mancuso che Sorani, con la sola – ma decisiva – differenza che quel particolare contenuto credente che a parere del primo diventa storicamente foriero di aggressivo nazionalismo suprematista, è rivendicato invece dal secondo come carattere distintivo legittimo e insopprimibile della stessa identità storica del popolo ebraico. Il punto che contrappone le posizioni e crea polemica tra i due autori, è perciò questo: Mancuso ritiene che esista un nesso di continuità tra alcuni contenuti dell’ebraismo e una corrente spiritale, da lui denominata “israelismo”, caratterizzata non da “comunione con gli stranieri e solidarietà con i più deboli” ma “supremazia, forza, potere” la quale si mostra da sempre presente nelle Scritture di Israele per poi riemergere regolarmente in qualche truce esponente della sua storia antica e contemporanea; Sorani reagisce però “con stupore e angoscia”, e giudica “grave falsificazione” una lettura interpretativa della religione ebraica che la scinde in versanti-contenuti ‘buoni’ (il suo “aspetto spirituale”) e ‘malvagi’ (l’“israelismo” come sua traduzione storico-politica). Nel suo opposto giudizio, è da escludere totalmente che gli odierni atteggiamenti dei due ministri israeliani Ben Gvir e Smotrich – ai quali pure riserva giudizi e valutazioni di sapore religioso definendoli “personaggi fanatici” e accennando al “loro fondamentalismo” – possano “riflettere/realizzare una parte integrante dell’ebraismo biblico”: pur essendo disposto ad ammettere che nei Testi ebraici esistano passi e posizioni aventi tono e contenuto aggressivi, Sorani sostiene che essi non vanno certo assunti ‘alla lettera’ ma interpretati proprio secondo la tradizione religiosa dell’ebraismo e le “analisi e decrittazioni dei Rabbini”, le quali sono state capaci di positiva funzione storica di purificazione e moralizzazione dei tratti violenti-belluini massivamente presenti nelle culture pagane-idolatre con cui Israele è stata costretta a confrontarsi sia dalle sue origini e poi nel corso di tutta la sua storia. Mia sintesi: ci troviamo di fronte a due contrapposte interpretazioni politico-religiose dello stesso fondamentale elemento di fede, fatto che lo rivela come punto-chiave ‘problematico’ dell’intera questione: la cosa emerge peraltro già nell’intervento di Croce, il quale si chiede quale ‘teologia politica’ possa mai essere “sottesa alla concezione del Dio esclusivo di una comunità etnica” e se fino a che punto essa possa essere compatibile con l’universalismo proposto da tanti altri passi e contenuti delle Scritture ebraiche (ad esempio, le concezioni di Isaia rimarcate dal rabbino Di Segni). Ed è proprio sullo stesso punto-chiave, che proverò a focalizzare il mio intervento.
- Nel frattempo, sia le considerazioni proposte da Mancuso che quelle di Sorani sono chiare, ed entrambe meritevoli – come in effetti sta avvenendo – di ulteriori valutazioni e approfondimenti. Ciò che si può qui aggiungere al fine di una loro più piena comprensione (le successive valutazioni sono quindi presentate non con lo scopo di sminuirle, ma solo di ‘inquadrarle’ entrambe in correnti interpretative più ampie) è che la prima corrisponde alla impostazione “razionalistica” propria di un autore scettico verso ogni religione ufficiale-costituita e critico in particolare verso la spiritualità antico-testamentaria (è il tratto interpretativo di Mancuso imputato da Sorani di “marcionismo”); la seconda è invece espressione di un credente moderato che non può che porsi a difesa della religione cui in tutta coscienza e consapevolezza appartiene quando – almeno in base a come egli stesso la sente e la vive – la vede ingiustamente accusata di indurre prassi storiche violente-“fanatiche” che egli stesso rigetta e aborrisce. Perché ho tenuto a rimarcare tali aspetti? Perché, quando da lettori convolti nella questione siamo portati a propendere – se non proprio a schierarci con convinzione – con la posizione sostenuta da un autore che interviene in una polemica, dovremmo pure chiederci se si può personalmente aderire ad essa senza avere una valutazione previa (una sorta di pre-giudizio, quindi) verso la funzione negativa o positiva che le religioni ancora esercitano nella storia umana. Sempre per la stessa ragione, mi pare che a questo punto diventi opportuno richiamare anche il successivo intervento di Repaci, il quale con la sua impostazione super partes appare in grado di offrire alla discussione ulteriori elementi di riflessione.
In generale, e sulla scorta di argomentazioni molto simili, nel dibattito in corso Repaci prende le parti di Sorani: egli imputa a Mancuso di presentare giudizi sommari e semplificanti nei confronti della religione ebraica così come anche di quella islamica, e proprio come fa Sorani rispetto a ciò che denomina la “requisitoria antisionista” dell’articolo di Mancuso (da lui giudicata “priva della benché minima conoscenza storica del sionismo”), rigetta in modo convinto l’accusa di “nazi-islamismo” attribuita da Mancuso a Hamas e più in generale all’islam politico scrivendo che
“parlare di ‘nazi-islamismo” significa ridurre l’Islam politico — che è già di per sé una categoria sfaccettata, ambigua e storicamente stratificata — a una caricatura demoniaca. Si tratta di una semplificazione brutale, che appiattisce realtà profondamente diverse sotto un’unica etichetta negativa. L’espressione “Islam politico” include infatti esperienze molto differenti tra loro: dalle correnti riformiste e legaliste dei Fratelli Musulmani, all’islamismo sciita iraniano, fino alle forme militanti e terroristiche di gruppi come al-Qāʿida o l’ISIS. Ma comprende anche movimenti che hanno partecipato a processi democratici, amministrato città, organizzato servizi sociali, dato voce a istanze popolari”.
Fin qui dunque, piena convergenza di posizioni. Ma ciò che fa differenza e va qui rimarcato è che, quando Repaci ampliando lo sguardo della sua analisi provvede a prendere difesa di una grande religione che non è più la propria in nome di una più precisa e accurata interpretazione storiografica, allora il suo intervento mostra di essere molto più che una semplice oratio pro domo sua: diventa invece riflessione in grado di indirizzare il dibattito verso la vera ed effettiva questione che oggi dovrebbe interessare ogni uomo che, credente o non credente, voglia meglio orientarsi di fronte al profluvio di guerre più o meno “sante” e “morali” e/o di paci più o meno “giuste” che continuano ad essergli propinate dallo scenario politico internazionale. Si tratta di un punto colto dallo stesso Repaci quando, pur respingendo una impostazione interpretativa che nei suoi netti e drastici giudizi di valore tende a “usare etichette infamanti che non descrivono, ma giudicano in blocco, e servono a creare paura più che a favorire la comprensione”, nondimeno non ha remora a riconoscere che “il contributo di Vito Mancuso tocca un tema cruciale: la degenerazione della religione quando diventa ideologia di potere e giustificazione della violenza”. Rispetto a tale più ampia e rilevante questione (la quale a mio avviso andrebbe sempre parallelamente trattata, se davvero ci si vuole occupare di “israelismo” o di islamismo radicale), la posizione assunta da Soraci è moderata e pluralistica, poiché rifiuta qualunque estremismo storico-politico che si faccia forte di un qualche (vero o presunto) fondamento religioso e al contrario difende ogni opzione credente-religiosa che si mostri consapevole e responsabile: al proposito, egli sostiene che
“Tutte le religioni — incluso l’ebraismo, incluso l’Islam — contengono in sé potenzialità etiche e derive ideologiche… nessuna tradizione religiosa è immune dalla presenza di testi duri o ambigui. La differenza sta nell’uso che se ne fa. È l’interpretazione, non il testo in sé, a determinare se una religione sarà fonte di liberazione o di oppressione… Serve [quindi] la capacità di distinguere tra la fede e il suo abuso, tra la religione e la sua deformazione politica, tra i testi sacri e l’uso che ne viene fatto… La responsabilità ricade su chi interpreta, su chi insegna, su chi parla in pubblico”.
Sento di condividere parola per parola tali considerazioni, in particolare riguardo alla intima ambivalenza teorico-pratica presente in ogni religione e alla responsabilità storica che tocca ai credenti a far sì che i complessi stimoli socio-relazionali indottigli dalla propria fede diventino sempre e comunque opere di pace; in generale, condivido anche le “perplessità profonde” che Repaci solleva sui toni un po’ troppo recisi usati da Mancuso nel suo intervento e ancor più la posizione articolata che egli presenta sull’ebraismo, la quale se da un lato rigetta giudizi drastici e semplificazioni sommarie della religione ebraica dall’altro – e non di meno – fa emergere un problema di cui oggi val bene la pena discutere:
“Ridurre questa ricchezza religiosa e intellettuale [dell’ebraismo] alla matrice di figure come Itamar Ben Gvir è semplificazione offensiva, che finisce per riprodurre l’antico pregiudizio secondo cui l’ebraismo sarebbe intrinsecamente vendicativo o violento… Sarebbe stato più corretto parlare di ebraismo e sionismo, due realtà storiche, teologiche e politiche distinte, seppure in parte intrecciate. Il sionismo contemporaneo è intriso di colonialismo e suprematismo. Non si tratta di una deriva occasionale, ma del cuore stesso della politica israeliana da decenni… l’espressione coerente di un’ideologia che pone i diritti di un popolo al di sopra dell’esistenza stessa di un altro”.
Un giudizio di tal fatta mi permette di tornare a presentare le mie tesi che – almeno, così mi pare – possono contribuire non solo ad apportare alla discussione nuovi e utili elementi di valutazione, ma anche a rendere più comprensibili le diverse motivazioni sottese alle interpretazioni fin qui offerte ai temi in discussione.
- E’ indubitabile (lo ammette o sostiene chiunque abbia partecipato al dibattito) che è nella Scrittura ebraica, che per prima compaiono passi e posizioni credenti atti a costituire gli antecedenti teorici e pratici di ciò che in seguito sarà denominata “guerra santa”; tali contenuti però (e il punto dovrebbe esser chiaro a chiunque voglia discutere se essi poi abbiano o no pessime ricadute politiche), non li si può certo imputare al solo ebraismo: analoghi stimoli bellicisti-violenti si mostrano presenti anche nelle Scritture cristiane e in quelle islamiche (basti pensare al “Giudizio escatologico” e al “Regno millenario” dei santi nell’Apocalisse cristiana citati anche da Repaci, oppure, nel caso islamico, ai numerosi stimoli al “piccolo jihad” che l’islamismo radicale rintraccia nel Corano). Per cui, se davvero si nutre amore di oggettività e corretto giudizio storiografico (più che di interesse alla mera polemica interconfessionale), ciò che bisognerebbe allora andare a verificare e approfondire è cosa poi di fatto è accaduto sul piano degli atteggiamenti storici dei credenti delle tre grandi religioni abramitiche: ovvero, se e fino a che punto i pungoli aggressivi-violenti presenti nelle proprie Scritture siano stati recepiti dalla comunità credente nel suo complesso e se e in quanta misura siano poi stati tradotti in modo regolare e costante in atteggiamenti bellicosi da parte di sue correnti e movimenti: ovvero – punto questo che ritengo decisivo – quale sia stato l’atteggiamento di fatto tenuto nei loro confronti da un lato dalle Chiese ufficiali e dall’altro da gruppi estremisti-radicali magari non riconosciuti come ortodossi dalla religione costituita e/o dai suoi esponenti e interpreti più accreditati. Di certo, non è questo il luogo in cui sia possibile procedere a un esame comparato e dettagliato dell’intera questione (per chi volesse dibattere un po’ più in profondità il controverso caso ebraico, ho preparato a latere una mia breve storia della spiritualità ebraica di cui magari poter discutere); qui, mi limiterò a alcune considerazioni molto sintetiche e generali. Le due domande cui proverò a rispondere sono le seguenti: gli stimoli bellicisti-suprematisti presenti nelle Scritture ebraiche sono sempre stati costantemente presenti nella storia di Israele fino a diventare in qualche fase il focus predominante dell’atteggiamento storico dei credenti? E, se questo è accaduto, chi si è reso protagonista del fatto: singoli suoi esponenti, più o meno riconosciuti o improbabili ‘profeti’ escatologici, correnti ortodosse o sette eterodosse, il popolo ebraico nel suo complesso?
Con un esame “a volo d’uccello” della intera storia di Israele, mi pare si possa sostenere che rispetto a tali questioni l’ebraismo abbia espresso concezioni e prassi davvero molto variegate e contrastanti tra loro, e abbia dato vita a tre diverse fasi o periodi storici di attività, i quali oscillano da quanto accaduto nella fase “javhistica” della storia di Israele, quella in cui categorie teologiche, narrazioni scritturistiche e eventi storici concordano nel presentare situazioni di aggressiva mobilitazione del popolo ebraico manifestatesi sia ad intra che ad extra (cherem e “Giudizio delle Nazioni”, settarismo esacerbato e guerre civili, sollevazioni generali, resistenza irriducibile-riottosa che giunge fino alla lotta armata e a due guerre di liberazione nazionale contro l’oppressore pagano), a quanto invece avviene poi nella successiva e bimillenaria successiva fase del giudaismo rabbinico (il quale al contrario ci presenta un Israele mite e pacifico che diventa oggetto di angherie e persecuzioni sempre più intense e accentuate, ghettizzazioni, discriminazioni, pogrom), per metter infine capo dal XX secolo in poi a quell’ultima e controversa fase contemporanea nella quale siamo pienamente immersi oggi, periodo in cui la cosiddetta “questione ebraica” viene amplificata a significati etico-politici assoluti e fase nella quale il mondo esterno a Israele prova a darle ogni possibile interpretazione e soluzione: dalla vergogna assoluta della Shoah propria dell’Endlösung nazista, alla piena emancipazione e riconsiderazione del popolo ebraico (con la correlata condanna dell’anti-semitismo oggi predominante nel common sense politico mondiale), fino a dar vita a quei più problematici movimenti, correnti ed esiti (sionismo, ricostituzione dello Stato di Israele) che, pur dotati di pieno e legittimo assenso internazionale hanno poi a lungo termine significato per l’area geografica israelo-palestinese la riproposizione di cruente e sanguinose problematiche che sembravano proprie di tempi passati.
- Se si accetta di affrontare la questione dell’eventuale nesso esistente tra fedi religiose e prassi violente con una impostazione interpretativa che non guardi semplicemente alla “natura”/struttura delle singole diverse religioni ma tenga anche e soprattutto conto di come i suoi contenuti di fede sono poi di fatto declinati in prassi storiche dalla comunità credente, mi pare possano diventare chiari non solo la complessità degli elementi di cui bisogna tener conto quando si affronta il tema delle ricadute storico-politiche del sionismo, ma anche l’andamento finora avuto dal presente dibattito e le posizioni via via assunte dagli intervenuti. In una prima fase, la discussione ha rischiato di ridursi al tema del carattere proprio dell’ebraismo e alla (pur rilevante ma in fondo limitata) questione se davvero il suo più peculiare contenuto di fede sia passibile di derive storiche violente (lettura che può anche essere più o meno legittimamente sostenuta da qualche suo interprete, ma che è ovviamente negata da ogni ebreo moderato): ci si fosse limitati a questo, il dibattito non avrebbe fatto altro che cadere nella trappola interpretativa cui ho messo in guardia già nella mia Premessa, e nel contempo sottovalutare indebitamente altri due punti importanti – e secondo me decisivi – dell’intervento di Mancuso pur rilevati ma non adeguatamente valorizzati dai successivi interlocutori. Il primo, è che nell’odierno Israele ci ritroviamo di fatto in presenza di indirizzi teorici e di prassi storico-politiche contrapposte in attori che pure continuano a far personalmente riferimento alle stesse Scritture; il secondo, è il suo rintracciare forti analogie tra le prassi combattenti di matrice religiosa (più o meno presunta) proposte dai versanti estremisti di entrambi i fronti in lotta (formulata nel suo lessico, l’esistenza di un “nazi-sionismo” che si contrappone mortalmente a un “nazi-islamismo”): da parte mia, è proprio su questi aspetti che invece vorrei dire qualcosa, apportando al dibattito qualche altro elemento di cui sarebbe bene tener conto nella discussione. In particolare, qui vorrei sottolineare il fatto di come il sionismo all’inizio della propria storia nasca e si proponga come movimento laico al tempo addirittura osteggiato dalle correnti religiose più tradizionaliste, use ormai da quasi due millenni a concepire e vivere l’ebraismo come religione “del Libro” e non più “della Terra promessa” (ad esempio, da Agudat Yisrael, ancora oggi esistente e avente propri rappresentanti tra i membri della Knesset); è solo nei decenni successivi (e in particolare a partire dai grandi trionfi militari ottenuti nella Guerra dei 6 giorni e dello Yom Kippur), che si è avuta progressiva saldatura tra le correnti politiche israeliane più nazionaliste-militariste e l’ebraismo religioso più integrista-fondamentalista, dando vita a quel “sionismo” contemporaneo di cui si lamenta Repaci e di cui, a parere di Sorani, Mancuso ha poca o nulla conoscenza storica. Bene: ciò che qui interessa notare, è che qualcosa di molto simile mi pare si possa dire anche per Hamas. Hamas, come proclama il suo nome (è noto che la parola è acronimo di Harakat al-Muqawama al-Islamiyya = “Movimento di resistenza islamico”, ma vale anche “zelo, entusiasmo, spirito militante”), e come risulta evidente anche dalla duplice matrice culturale dei suoi due fondatori (lo shayk fondamentalista Ahmad Yassin e il politico laico Abd al-Aziz al_Rantisi) nasce anch’esso dall’intreccio inestricabile di ardente afflato religioso e di militante spirito di potenza-resistenza “terreno”. Ciò che caratterizza quindi il sionismo e Hamas suo contraltare storico non è solo e tanto il loro emergere e operare come correnti-movimenti radicali di matrice religiosa, ma essere sette-fazioni militanti che perseguono obiettivi storici assoluti e quasi “salvifici” per i loro rispettivi popoli: ovvero, ambedue condividono il comune e opposto proporsi come Partito di Dio (il punto vale anche per Hezbollah, il cui nome significa esattamente questo). È precisamente tale contorto (e, per altri suoi aspetti, confuso) intreccio politico-religioso, che tende a far acquisire ai loro rispettivi obbiettivi storici l’aspetto di una Missione sacra, che rende agli occhi dei loro adepti del tutto legittimi – se non proprio “doverosi” – i più disumani atti di lotta all’Avversario “malvagio” e che attrae intorno ai due movimenti tutti gli uomini più estremisti e radicali, credenti o no che siano, inducendoli indifferentemente e comunque alla lotta a oltranza, alla resistenza irriducibile, al sacrificio personale fino alla sicura e immancabile vittoria, e infine alla idea della eliminazione definitiva del Nemico diabolico che attenta quotidianamente all’esistenza del proprio Popolo. Quello che voglio qui sostenere, è che la semplice esistenza di una condizione religiosa “elettiva” e/o di categorie religiose “belliciste-aggressive” verso le altre Nazioni è condizione necessaria ma non ancora sufficiente all’emersione di un successivo suprematismo storico-politico e di correlate prassi violente-cruente: per poter dar vita agli inaccettabili comportamenti di cui si rendono poi protagonisti i militanti del Partito di Dio, il fondamento sacrale – e non importa affatto se reale oppure solo presunto – della loro Comunità superiore (il quale pur si pone come loro ineludibile ‘presupposto’), deve però essere assunto e strumentalmente usato secondo una prospettiva di potere e di concreta supremazia storica e al fine di perseguire vittoria completa-definitiva sui Nemici ‘diabolici’: alimentando così una sublime Missione storica capace di trasformare ogni conflitto politico nella “Madre di tutte le battaglie” che spinge a far considerare gli avversari terreni come il Male assoluto da estirpare con ogni mezzo e a ogni costo, abbassando nel contempo il rango degli uomini non combattenti che restano senza neppure volerlo coinvolti nella Guerra assoluta a quello di semplici “danni collaterali”.
Vengo alle mie personali conclusioni.
- Nessuna grande religione universale è in sé stessa intrinsecamente violenta, ma tutte lo possono diventare se e quando si inizia strumentalmente a usarle a fini di Potere, impiegandole cioè quali veicolo di avvaloramento superiore della propria (e più o meno giusta) causa umana: tutto dipende quindi da come la singola religione sia interpretata/vissuta dai suoi seguaci. Condivido in pieno la posizione di Repaci riguardo al grande problema della degenerazione violenta dei credi religiosi: la questione riguarda e coinvolge la piena e consapevole responsabilità dei credenti. E concordo pure sul fatto che, nella valutazione comparata delle ricadute storico-politiche delle fedi religiose, bisogna essere sempre cauti e prudenti nei giudizi proposti, fare attenzione alle complessità del tema e rifuggire dai giudizi netti, dalle semplificazioni indebite, dalle demonizzazioni complessive; se proprio, posti di fronte a insopportabili e drammatici scenari storici in cui si sente di non poter fare a meno di dire la propria, si vuole procedere ad attualizzare e contestualizzare il problema della (possibile) ricaduta violenta dei credi religiosi, allora bisogna rendersi conto, per dirla proprio con Repaci, che
“la causa palestinese merita tutta la nostra solidarietà, ma non ha bisogno di scorciatoie retoriche. Ha bisogno di verità, di giustizia e di un linguaggio che sia all’altezza della complessità che pretende di denunciare”.
Non di meno, nella mia interpretazione, l’attenzione alla complessità richiede pure di non sottovalutare la presenza di analogie e costanti storiche che – almeno, mi pare – continuano a manifestarsi sul piano dei comportamenti concreti di uomini e gruppi; se esse esistono, vanno recepite e spiegate come grave e impellente problema di relazioni inter-umane, e non sventate come se fossero situazioni inverosimili da rimandare semplicemente, per la loro soluzione, alla interpretazione dei dotti. Bene fanno tutti i credenti moderati a difendere la propria religione e a sottolineare il valore e la ragionevolezza di ogni interpretazione non fanatica della propria fede; ma ciò non deve far dimenticare, come insegnano grandi studiosi della comunicazione, che “il primo contenuto di un messaggio non è ciò che il messaggio dice, ma sono i suoi effetti in noi” (McLuhan): giudizio che si fa valere anche per i messaggi e le rivelazioni che si pongono a fondamento delle grandi religioni universali. Da sempre, insigni studiosi ed esegeti (tra quelli di formazione cristiana, ricordo qui von Rad) hanno sottoposto al dovuto approfondimento i temi abramitici della guerra santa, del cherem, del giudizio escatologico sulle Nazioni, del piccolo e grande jihad; non di meno, resta chiaro che nessuna lettura dotta e/o moderata della guerra santa, del millenarismo cristiano, degli ahadith del Profeta eviterà mai che un credente fanatico li legga e interpreti a modo proprio e inauguri prassi storiche violente grazie alle personale convinzione che “Dio lo vuole”. Perciò, esisteranno sempre credenti fanatici che nelle parole dei loro testi sacri ritroveranno stimoli e incentivi a gesti folli e disumani verso quella contro-parte ‘bestiale’ di umanità che essi considerano meritevole del più spietato giudizio, di giusta e definitiva condanna, di punizioni esemplari; nel frattempo, ciò che tocca a ogni uomo per bene che si interessi del tema non è certo giudicare e accusare una qualche religione nel suo complesso e neppure difenderla a oltranza assicurando e rassicurando che essa giammai può produrre bestiali abomini, ma studiare e approfondire il problema indagandolo sempre più in profondità e in tutte le sue più nascoste radici.
L’impostazione di Repaci fa emergere la decisiva questione che l’intervento di Sorani (teso semplicemente alla pur doverosa difesa della propria religione) rischia di evitare, e che aveva trovato corpo già nell’impellente invito di Croce a “riflettere… sulla teologia politica sottesa alla concezione del Dio esclusivo di una comunità etnica” (cosa che allargherebbe la problematica qui trattata anche alla concezione sovranista-laica dello “Stato-Nazione” che si sente legittimamente abilitato a ogni tipo di intervento storico, pur di garantire sicurezza ai suoi cittadini).
Ma anche limitandosi al versante più strettamente ‘religioso’ del caso dibattuto, è chiaro che restano ancora prive di risposta alcune questioni che invece dovrebbero essere affrontate da tutti gli uomini, credenti o no che siano, interessati al tema della violenza politica a matrice religiosa, e che qui possono essere sintetizzate in due-tre domande: perché mai sionismo e Hamas, movimenti entrambi non direttamente religiosi e nati per perseguire obiettivi storico-politici, si mostrano poi parimenti capaci di attrarre-mobilitare tanti credenti radicali-oltranzisti (meglio sarebbe dire: tutti gli uomini che si sentono credenti ma che si mostrano fanatici)? Oppure, prendendo la stessa questione dal versante opposto del problema: perché mai le più truci posizioni e atteggiamenti storici dei “sionisti” e degli “islamisti” tendono tanto ad assomigliare a quelli proposti dalle più violente-cruente correnti totalitarie e autoritarie terrene, con analogie che non sono affatto ossessione o “impressione” del solo Mancuso? (se questi parla di nazi-sionismo e nazi-islamismo e trova dirette continuità tra cherem antico-testamentario e Endlösung nazista, Sorani non esita a definire pogrom il massacro del 7 ottobre). Non è che magari esistono affinità psicologiche e antropologiche tra l’uomo politico radicale e l’uomo credente fanatico che varrebbe la pena meglio indagare? Da parte mia, credo che il miglior modo di porre l’intera questione qui dibattuta sia non solo rimarcare gli eventuali nessi di continuità esistenti tra violenza e religione (in generale e/o con singole spiritualità o confessioni religiose), ma anche e soprattutto i nessi e le costanti storiche che continuano a emergere tra violenza e qualunque estremismo, religioso o laico che sia.
Personalmente, penso che un credente fanatico e un politico radicale siano due figure umane ‘antropologicamente’ e psicologicamente molto simili: fermamente e ardentementeconvinti della superiore giustezza della propria causa, in tutti i loro atteggiamenti storici essi si mostrano decisi, risoluti e disposti a usare ogni mezzo per far valere le loro giuste e/o sante ragioni. Entrambi bramosi di potere e smaniosi di predominio, tendono in solido a giustificare qualunque loro atto col rimando a non negoziabili valori relazionali, indifferentemente laici o religiosi, che essi però non esitano a strumentalizzare a proprio vantaggio mascherando i propri fini particolari con il manto religioso-morale di superiori fini umani (quali la protezione del Popolo, o la liberazione di prigionieri), di fatto accrescendo il proprio potere personale in nome di una Giusta Causa. Persino il perseguimento di una “pace giusta” può diventare nelle loro mani l’alibi per proseguire e continuare una “guerra a oltranza” da condurre ovviamente sino alle sue estreme conseguenze, a quella “soluzione finale” storicamente inaugurata – e per fortuna solo in parte realizzata – dai totalitarismi terreni e che invece dovrebbe restare propria del Giudizio divino di una escatologia religiosa. Di fronte ai tempi della storia, l’uomo politico radicale e il credente fanatico si rivelano entrambi ‘in-temperanti’: tendono cioè a ridurre il “tempo della Fine” religioso alla “Fine del tempo” che essi stanno storicamente vivendo, e confondere l’Ultimo giorno delle Scritture (quello della battaglia escatologica il cui il Male sarà per sempre distrutto) alla sola e concreta battaglia storico-politica che stanno personalmente combattendo; la guerra che vivono ogni giorno non è più lotta politica-militare tesa alla semplice sconfitta dell’avversario, ma la Grande Battaglia escatologico-religiosa che si conclude con la distruzione del Nemico diabolico, quella che “deve” necessariamente giungere al suo completo annientamento. Una tale lotta supera in tromba i famosi giudizi sulla guerra proposti dal più grande polemologo di sempre (ovvero, che essa sia la “continuazione della politica con altri mezzi” e che il suo fine sia porre l’avversario in condizione di sudditanza); nel corso del XXI secolo, molte, troppe guerre hanno acquisito senza che neppure i suoi protagonisti se ne rendano conto prospettive e aspettative assolute di tipo escatologico-religioso, in cui gli attori protagonisti umani si mostrano pronti a praticare il Giudizio di Dio e diventare, per usare lessico cristiano, angeli dell’Apocalisse.
Per fortuna, resta abbastanza facile individuare il più chiaro indice e segnale della loro smania di potere, di vittoria e predominio: nell’ardore della loro battaglia essi non distinguono più tra militari armati e civili inermi, e fanno a gara a considerare anche bambini, anziani e donne incinte propri Nemici giurati. Ma quando iniziano a operare in questo modo, un sano rapporto con la religione aiuta e discernere e a smascherarli: se infatti l’uomo che si presenta come ispirato da Dio ma resta intimamente legato al Potere richiede trionfo della propria Causa costi quel che costi, il vero uomo pio porta rispetto e devozione verso ogni essere e realtà vivente, sia esso Dio oppure semplici uomini suoi fratelli di condizione mortale. Insomma, non basta aver stampigliato Gott mit uns sulla fibbia del proprio cinturone, per proporsi come “soldati di Dio”: se poi inizi a sterminare tuoi simili ammassandoli in camere a gas, è evidente che il Dio creatore di tutti non è dalla tua parte, e che secondo i suoi stessi Comandamenti stai semplicemente “abusando del Suo nome”.
I credenti moderati di ogni grande religione, quelli che aderiscono con convinzione alla propria fede in un unico Dio-Creatore di uomini diversi (e che proprio per questo giudicano ricchezza, la diversità di credi e posizioni), pensano sia diritto di coscienza di ogni creatura libera e ragionevole il poter seguire e praticare la propria fede nell’unico Dio-creatore di tutti, e diritto di ogni popolo poter vivere in pace e sicurezza su una qualche terra che proprio in quanto di Dio non è mai solo dei veri credenti, ma luogo aperto all’accoglienza e all’ospitalità di tutte le altre umane “creature”, comprese quelle di fede e nazionalità diversa dalla propria. Tutti gli uomini e popoli, se laicamente hanno diritto ciascuno a un proprio Stato, religiosamente hanno il dovere di perseguire la pace e di praticare fraterna amicizia.