OLTRE IL GIOCO: TENTAZIONI, GIUDIZI E CONSEGUENZE
di Gian Paolo Bortone
Si è appena concluso su SkyUno la prima edizione di Money Road, un programma a metà tra reality, esperimento sociale e gioco di sopravvivenza. Dodici concorrenti affrontano ogni giorno diverse ore di trekking in condizioni ambientali sempre più proibitive: dislivelli impegnativi, caldo torrido, fango, sanguisughe ecc … per conquistare, alla fine del percorso, un montepremi finale di 300.000 euro. Ma a rendere interessante il programma non sono gli sforzi e la fatica fisica, ma la variabile rappresentata dalle “tentazioni”: ogni giorno vengono offerte ai partecipanti delle scelte, piccole gratificazioni personali (un caffè, una colazione, un piatto di pasta cucinato da Giorgio Locatelli, una serata nel lusso di un grande yacht) o benefici logistici (come farsi trasportare lo zaino). Ogni tentazione, però, come da manuale di teologia, ha un prezzo: ogni euro speso per soddisfare un bisogno personale è sottratto al montepremi comune. Ogni scelta personale, quindi, ha conseguenze collettive, secondo un meccanismo semplice, ma non moralmente banale: fino a che punto, infatti, è lecito cedere alla tentazione, sapendo di gravare sugli altri? Fino a che punto si può rivendicare la propria libertà di scelta come se si fosse soli?
Già dalle prime puntate si sono delineati due atteggiamenti: una parte del gruppo (che si è andata via via allargandosi con l’andare delle puntate e delle dinamiche che si sono innescate) si è lasciata spesso andare alle tentazioni per vivere in pieno l’esperienza; altri, invece, hanno adottato un approccio più rigoroso, rifiutando ogni agevolazione non essenziale o chiedendo di discutere tutti insieme sull’opportunità o meno di cedere alle tentazioni. Due visioni, entrambe legittime, che non solo sembrano difficilmente conciliabili, ma che inevitabilmente sono entrate in rotta di collisione. Senza contare le numerose e interessanti dinamiche che via via il gioco ha alimentato: un’ossessione “calvinista” per il denaro; atti di generosità e di altruismo che si sono alternati a menzogne e strategie; sensi di colpa per aver accettato una quota di denaro e non essere stati onesti con il gruppo… fino a un finale scioccante che ha scatenato accese discussioni sui social. Un’esperienza che ha fatto emergere tutta una serie di questioni relazionali e morali. A fare da host del programma c’era Fabio Caressa, noto giornalista sportivo e telecronista di Sky. Davanti all’offerta della tentazione, con distacco, Caressa ha sempre ricordato lo slogan del programma: «Qui non c’è giudizio. Ci sono solo scelte e conseguenze». Una frase che sembra neutra, ma che è carica di dogmi impliciti: il primo è che ogni scelta deve essere considerata lecita, a patto che poi se ne affrontino le conseguenze. Il secondo è che giusto o sbagliato non esistono come categorie universali, ma solo come reazioni termiche alle azioni e ai loro effetti. Ma proprio qui si rivela l’angolo cieco della faccenda: le conseguenze delle azioni non sono mai esclusivamente del singolo. In un sistema interdipendente (come Money Road, come la polis e, in fondo, come la vita) ogni decisione non si esaurisce mai nell’ambito personale, ma redistribuisce inevitabilmente il proprio carico di conseguenze anche sugli altri. Ne consegue che ogni scelta non può limitarsi all’accettazione del danno personale, ma dovrebbe tenere conto anche dell’effetto sulle risorse comuni e sul legame fiduciario tra i membri del gruppo. In effetti, Caressa (e quindi il programma) non ha mai giudicato nessuna scelta; ma i concorrenti hanno invece costantemente avuto da ridire e hanno tentato di giustificare le proprie o le altrui scelte. Money Road ha quindi messo in scena un problema classico: cosa fare quando ciò che per me è tollerabile, o perfino necessario, non lo è per l’altro? Fino a che punto questa dinamica può essere sostenibile? Quale spazio ha il bene comune in un sistema in cui le scelte sono tutte formalmente equivalenti? Perché posso o non posso semplicemente fare quello che mi pare e che ritengo giusto per me?
L’ordine delle cose, il disordine dell’uomo
Una prima risposta a queste domande arriva dalla concezione morale del mondo greco, una concezione che sarà poi ripresa e sublimata dal Cristianesimo. Disclaimer: ovviamente quando parliamo di mondo greco-romano o Cristianesimo sappiamo di avere a che fare con mondo complessi e articolati all’interno dei quali esistono tutta una serie di sfaccettature, posizioni originali o veri e propri smarcamenti: qui, però, ci interessa mettere in evidenza una tendenza generale. Per secoli, infatti, la risposta a queste domande ha riposato su basi che oggi ci sembrano molto distanti, quasi esotiche: l’universo è ordinato da un logos, una ragione iscritta nella natura, che conferisce un fine (telos) a ogni cosa. Vivere moralmente significa, quindi, comprendere e adeguare la propria vita a quel fine. Nel mondo greco-romano, l’essere umano era parte di un ordine cosmico e sociale che trovava la sua piena realizzazione nella virtù (areté) che si concretizzava, da un lato, nel prendersi cura di sé (epimèleia heautoù), nell’essere presenti a sé stessi, nel saper governare i propri istinti e quindi nell’autorealizzazione individuale ma, dall’altro, implicava anche un impegno collettivo che si realizzava nella polis. Questa infatti non era semplicemente un luogo, ma rappresentava un vero e proprio orizzonte etico in cui l’uomo poteva misurarsi e dimostrarsi virtuoso. Questa visione è diventata una vertigine nel pensiero di Platone: se il mondo sensibile, infatti, non è che il riflesso mimetico delle Idee, il punto di partenza e di attrazione della vita morale non può che essere l’Idea di Bene a cui l’anima continuamente tende. Quella di Platone più che una proposta morale è, per certi versi, una pedagogia e una forma di ascesi: vivere moralmente significa salire, contemplare, purificarsi. Sarà Aristotele a riportare la morale con i piedi per terra: il bene è innanzitutto felicità (eudaimonia) che si raggiunge esercitando la ragione nella concretezza della vita. Le virtù non sono forme innate, ma abitudini che si apprendono e quindi devono essere coltivate. La loro misura non è l’assoluto, ma il giusto mezzo, per un’etica della misura e dell’equilibrio.
Questa concezione, nei suoi poli dialettici, è alla base della morale cristiana: In Agostino, il sommo Bene è Dio stesso, Bene infinito e unica fonte della beatitudine dell’uomo, che trova la propria realizzazione solo nell’unione con Lui. La morale nasce, quindi, dal desiderio profondo dell’anima di ritornare al Creatore (L’anima è inquieta finché non riposa in Dio, Le Confessioni), e la felicità consiste nell’amare Dio sopra ogni cosa. Quella di Agostino è, dunque, una morale fondata sulla volontà e sull’amore: quando questo amore è orientato verso Dio (caritas), l’uomo vive rettamente; quando invece si allontana da Lui (cupiditas), cade nel disordine morale e nella frattura dell’ordine dell’amore, che chiamiamo “peccato”. Se Agostino si muove fondamentalmente in un orizzonte platonico riletto in chiave esistenziale, Tommaso d’Aquino invece tenta di battezzare Aristotele, riprendendone la struttura metafisica: Dio continua a essere ovviamente il fine ultimo della vita, ma l’uomo può riconoscere un ordine oggettivo di fini inscritto da Dio nella natura umana: attraverso la ragione, l’uomo scopre precetti morali universali e vincolanti, come il rispetto della vita, la ricerca della verità, la convivenza sociale. Il bene, secondo Tommaso, è ciò che perfeziona l’essere secondo la sua natura: la moralità consiste quindi nel vivere secondo la propria essenza razionale, orientata verso Dio.
Molto spesso questo approccio morale è stato accusato, non senza qualche ragione, di eteronomia, ossia di far dipendere l’agire morale da verità stabili esterne all’uomo. Tuttavia, sia per Agostino che per Tommaso il bene morale non è mai un semplice insieme di regole, ma un cammino di crescita nella virtù e nella carità: anche se la legge morale ha un fondamento oggettivo, tocca alla coscienza dell’uomo fare delle scelte che siano propriamente umane nel vero senso della parola (a questo proposito, ricordiamo la differenza tra actus hominis e actus humanus). La ragione, quindi, riveste un ruolo decisivo; tuttavia, questa ragione, come pure diranno per altra via i cosiddetti maestri del sospetto, è ferita. Medea nelle Metamorfosi di Ovidio sosteneva con realismo disarmante: video meliora proboque, deteriora sequor, una frase che ritroviamo rielaborata anche nella Lettera ai Romani 7,19. L’uomo ha quindi bisogno della Grazia che viene in soccorso della volontà e dell’intelligenza. Di fronte alle questioni etiche, la tradizione morale cristiana, erede della tradizione greca, non ha voluto semplicemente dire come l’uomo avrebbe dovuto comportarsi, ma indicare un orizzonte di senso che delineasse una identità e, al tempo stesso, un’idealità a cui tendere tenendo insieme ragione e desiderio, comunità e libertà, natura e promessa, libertà e responsabilità, autonomia e relazione con Dio e con gli altri.
Alla ricerca di un principio formale
Tra XIV e XVII secolo, questa visione tradizionale entra progressivamente in crisi. A minare l’impianto classico è stata, innanzitutto, la rivoluzione scientifica: l’universo smette di essere un organismo animato da fini e diventa una macchina, regolata da leggi meccaniche impersonali. La natura, da riflesso dell’ordine divino, diventa un oggetto da conoscere, calcolare, manipolare. Non più maestra di vita, ma campo di indagine. Alla svolta scientifica si accompagna una crisi filosofica: la disputa sugli universali e la lenta dissoluzione del realismo medievale, infatti, hanno indebolito l’idea di una verità oggettiva e accessibile. Gli universali non sono più entità reali, ma semplici nomi: Stat rosa pristine nomine. Nuda nomina tenemus, commenta malinconicamente Adso da Melk al termine del Il nome della rosa. Ma lo smarrimento dei fondamenti ontologici ha ripercussioni anche in ambito etico: senza un ordine oggettivo del mondo, su cosa si fonda il bene? La Riforma protestante ha complicato ulteriormente il quadro: la natura umana, secondo Lutero e Calvino, è irrimediabilmente corrotta; la ragione non basta più per conoscere il bene e l’unica salvezza risiede nella fede e nella Grazia. Come se non bastasse, l’Europa ha attraversato un periodo di guerre di religione che non solo hanno reso sempre più problematico il riferimento a un’etica condivisa, ma hanno messo in discussione anche il ruolo della religione come garante di un ordine oggettivo, universale e pacifico, lasciando emergere un nuovo scenario in cui l’uomo aveva iniziato a percepirsi come soggetto autonomo chiamato a costruire da sé stesso e i propri valori. In questo contesto si registra, per esempio, il passaggio dalla morale naturale al contratto sociale: autori come Hobbes e Locke non cercano più la legge e la ragione sociale e morale nella natura, ma nella convenzione, nel patto, nella paura, nell’istinto di autoconservazione.
È da queste premesse che emerge la proposta di Kant, che tenta una ricostruzione dell’universalità morale: se la legge morale non può più fondarsi su Dio o sulla natura, allora deve nascere dall’autonomia della ragione. L’essere razionale, in quanto tale, è capace di darsi una legge che ha una forma precisa: l’imperativo categorico. Con buona pace di Caressa, secondo Kant, ciò che rende buona un’azione non sono le sue conseguenze, ma il fatto che derivino da una volontà retta che interpella la razionalità del soggetto. Questa non si basa su ciò che piace, ma sul riconoscimento di ciò che è giusto a partire da un imperativo etico trascendentale, valido per tutti, sempre. Il progetto kantiano ha avuto molte fortune e altrettante critiche, ma ha innegabilmente spalancato la vita a un’etica non fondata su un bene oggettivo cui uniformarsi, ma su un principio formale universale e razionale, ma allo stesso tempo autovincolante per il soggetto. Una via che Hans Jonas, secoli dopo, riprenderà, spostandone però il baricentro verso il futuro. Nel suo Principio responsabilità (1979), infatti, Jonas parte da una constatazione: il potere tecnico-scientifico ha cambiato radicalmente le condizioni dell’agire umano. Le etiche precedenti prendevano le mosse da un mondo stabile, in cui le azioni avevano un impatto limitato e conseguenze visibili. Oggi, invece, le nostre scelte possono influire sul clima, sull’equilibrio della biosfera, sulla sopravvivenza delle generazioni future. Da qui, la necessità di un nuovo imperativo: «Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla Terra». Il principio della responsabilità rovescia la prospettiva: non più l’universalizzabilità (chiedo perdono a tutti i docenti di lettere) astratta della massima presente, ma la sostenibilità concreta dell’azione futura. A questo punto, sembra che Caressa rientri incredibilmente in gioco. Ma è solo apparenza, perché c’è una differenza sostanziale e determinante: l’enfasi in Caressa ricade sulla scelta del singolo; per Jonas, invece, ricade sulle conseguenze di tutti che si trasformano in dovere, in un obbligo a pensare prima di agire.
In maniera simile si è mosso anche Jürgen Habermas, ultimo erede della Scuola di Francoforte, che però ha affrontato il problema dell’universalismo morale da un’altra angolazione. Nella società pluralistica e post-metafisica non si può più fondare la morale né su Dio né sulla natura, ma nemmeno sul soggetto isolato o irrelato, come faceva Kant. O meglio, come tenterà di dimostrare nell’opera Il discorso filosofico della modernità, su una interpretazione individualista, diventata poi egemone, delle questioni poste da Kant che invece avevano trovato tutt’altra declinazione, lasciata però decadere, negli scritti giovanili di Hegel. Allora, da dove partire? La risposta, per Habermas, va cercata nella struttura del linguaggio. Ogni volta che discutiamo, presupponiamo alcune regole: ascolto reciproco, argomentazione razionale, assenza di coercizione. È da queste condizioni ideali che nasce, per Habermas, la possibilità di una morale condivisa che trova, quindi, il fondamento non nell’autonomia monologica dell’individuo, ma nella co-legislazione dialogica della comunità. La morale non è quindi una verità imposta, ma il frutto di un processo in cui il bene non si eredita, ma si argomenta. Solo ciò che può essere giustificato in un contesto comunicativo aperto può aspirare a validità universale. È una visione quasi provocatoria, proprio oggi che la discussione pubblica è spesso sostituita da sondaggi, tweet o urla; proprio oggi che con fatica si riescono non solo accettare ma addirittura condividere quelle regole basilari di un dialogo. Inoltre, questo discorso deve fare i conti, a livello più profondo, con la tematica alla base del capolavoro di Ranciere, Il disaccordo. Il punto di rottura di ogni agire comunicativo, infatti, cade non lì dove le persone hanno in maniera evidente concezioni differenti, ma quando si riferiscono, nominano, parlano della stessa realtà magari utilizzando le stesse parole, ma finendo per indicare significati diametralmente opposti. In Money road, per esempio, tutti i partecipanti hanno giustificato le proprie scelte con la volontà di vivere in pieno l’esperienza. Tutti volevano vivere in pieno l’esperienza ma era evidente che questo, per ognuno di loro, significava qualcosa di diametralmente opposto. Il disaccordo è quella situazione nella quale gli interlocutori capiscono e, al tempo stesso, non capiscono la stessa cosa. Questo scarto produce una radicale incapacità di vedere nell’altro un soggetto capace di articolare parole e determinazioni simili alle proprie e, in virtù di questa diffidenza di fondo, le azioni sono derubricate a motivazioni banali, irrazionali e relegate a elementi irriflessi primordiali: invidia, meschinità, bramosia ecc… Questa concezione (che nasce dalla dimensione totipotente ma al tempo stesso irrimediabilmente fragile del linguaggio umano) rintraccia quindi nelle azioni morali una maschera che cela, come direbbe Morgan, «le brutte intenzioni e la maleducazione» dell’altro e depotenziano ogni possibilità di processo linguistico condiviso.
Fare il bene è una trappola? Genealogie del sospetto
Non si tratta, però, di una questione eminentemente moderna. Già Trasimaco, nel Libro I della Repubblica di Platone, sosteneva una concezione cinica e realista della giustizia. Dichiarando che «il giusto è l’utile del più forte», Trasimaco faceva coincidere il concetto di giustizia con l’interesse di chi detiene il potere: i governanti stabiliscono le leggi in base al proprio vantaggio e chiamano «giusto» ciò che conviene a loro, punendo chi disobbedisce. Ne consegue che rispettare la legge gioverebbe solo al padrone generando una situazione paradossale in cui «i sudditi faranno del bene ai potenti, rendendo felici loro e non certo se stessi». Per quanto sempre Ranciere abbia insistito sul fatto che l’utile del più forte non necessariamente generi un danno per gli altri, per Trasimaco la morale codificata nelle leggi è un inganno per mantenere sottomessi i deboli. L’uomo veramente felice è colui che, essendo più forte, infrange la morale comune e sopraffà gli altri a proprio beneficio. L’argomentazione di Trasimaco anticipa, in qualche modo, quanto sosterrà Nietzsche nella prima delle tre argomentazioni della sua Genealogia della morale nella quale cerca di dimostrare che “Bene” e “Male” non sono per niente qualcosa di oggettivo, ma concetti che nascono e si trasformano in base a motivazioni “umane, troppo umane”: esigenze di potere, risentimenti sociali, strategie di dominazione. Anche la cosiddetta morale degli schiavi (divenuta dominante con il Cristianesimo) che si struttura intorno all’amore per il prossimo, alla pietà, al perdono nasconde, sotto la patina di sentimenti apparentemente altruisti, la stessa volontà di dominio e possesso della morale dei signori. «L’amore per il prossimo non è altro che un anelito verso una nuova proprietà» per cui il benefattore aiuta il sofferente «per impossessarsene, per renderlo dipendente da sé». I valori etici diventano, quindi, strumenti di dominio: chi predica l’umiltà e il sacrificio spesso mira, magari inconsciamente, a tenere gli altri in posizione di debolezza e sotto controllo e, non avendo la forza per farlo con gli strumenti della vitalità (forza fisica, salute, potenza), lo fa surrettiziamente con la bontà. La morale, quindi, non è il riflesso di un ordine cosmico o razionale, ma il prodotto di chi la proclama. Se per Trasimaco la morale altro non è che un gioco di potere (non esiste un giusto universale, ma solo la volontà del più forte), per Nietzsche occorre andare “al di là del bene e del male” per affermare un’etica nuova, fondata sull’autonomia dell’individuo superiore (l’Oltreuomo). L’uomo eccezionale, infatti, non sente vincoli morali eteronomi, ma è legge a sé stesso. Ciò significa, in definitiva, che non vi è una moralità unica valida per tutti: i forti seguono la loro, i deboli la propria, e la morale universale è un’illusione imposta storicamente dai secondi per imbrigliare i primi.
Questa critica è stata ripresa da Foucault che, a partire da Sorvegliare e punire (1975) e poi nei quattro volumi della Storia della sessualità (La volontà di sapere, 1976; L’uso dei piaceri, 1984; La cura di sé, 1984; Le confessioni della carne, 2018), ha cercato di mostrare come quanto in epoca moderna è stato considerato morale, come la disciplina della sessualità e i sensi di colpa del soggetto, fosse in realtà il risultato di processi storici di assoggettamento. La morale, secondo Foucault, è stata uno strumento di potere utilizzato per controllare corpi e comportamenti, un dispositivo di governamentalità che ha sfruttato il concetto di bene per imporre processi di “normalizzazione” ridefiniti, di volta in volta, in funzione della loro utilità sociale. Alla morale della governamentalità, Foucault contrappone un altro modello morale che affonda le sue radici nel mondo greco-romano: la cura di sé. Studiando i testi stoici ed epicurei, Foucault individua un’etica non fondata su codici di divieti, ma su una pratica attiva di modellamento di sé, un’estetica dell’esistenza, una «tecnica del sé»: nel mondo greco, come abbiamo visto, la morale non era primariamente obbedienza a un comando universale (come sarà in Kant) o calcolo utilitario (come per Caressa), ma prendersi cura di séattraverso esercizi, meditazioni, dominio di sé, con l’obiettivo di vivere una vita bella e virtuosa in armonia col cosmo. Questa cura di sé aveva inevitabilmente una dimensione comunitaria e intersoggettiva, ma ruotava attorno all’individuocome progetto etico: la ricerca della felicità era quindi inseparabile sia dalla virtù ma anche dalla verità intesa non come un sapere astratto, ma qualcosa da incorporare e inverare nella propria vita. Sarebbe stato il Cristianesimo a far emergere una nuova forma di soggettività: l’uomo, segnato dal peccato, non può salvarsi da solo. Questo rendeva insufficiente e del tutto inefficace la semplice cura di sé che aveva bisogno di essere supportata, sostenuta, sostituita dall’adesione a una legge. I grimaldelli di questa rivoluzione sarebbero state le pratiche pubbliche del battesimo e della penitenza, intese come morti simboliche di un soggetto formalmente autonomo ma sostanzialmente impotente, per fare spazio a un «uomo nuovo», consapevole che solo all’interno della comunità e attraverso le sue regole poteva trovare la salvezza: extra ecclesiam nulla salus.
Accanto alla necessità di rintracciare un principio formale che potesse giustificare e orientare la convivenza tra le persone, quindi, si sono sempre levate voci critiche che hanno ricalibrato la scelta morale sulla singolarità del soggetto. A favore, cioè, di un soggetto che guarda con sospetto le etiche condivise e che concepisce il bene essenzialmente in termini individuali, addirittura antagonisti rispetto all’universalità. Una certa diffidenza verso le morali collettive è stata, come abbiamo visto, proiettata anche sul Cristianesimo e, diciamolo, è diventata col tempo un vero e proprio luogo comune. Tuttavia, se è vero che molte concezioni moderne hanno identificato nella tradizione cristiana la radice storica e culturale di un dispositivo morale eteronomo, va tuttavia riconosciuto che la questione è molto più articolata. Autori come P. Sloterdijk e G. Agamben hanno infatti mostrato come, all’interno della stessa tradizione cristiana, abbiano preso forma esperienze significative di libertà interiore e di autonomia etica del soggetto. Sloterdijk, nel saggio Devi cambiare la tua vita (2008), sostiene che il bene non si fonda su un dovere astratto, ma si manifesta attraverso le dinamiche dell’elevazione e dell’automiglioramento. L’uomo è un «animale acrobatico», dotato di plasticità, impegnato in esercizi costanti per migliorare sé stesso. In questa prospettiva, tanto le pratiche ascetiche religiose, alcune forme di vita monastica, quanto alcuni testi spirituali fondamentali come L’imitazione di Cristo o, aggiungo io, Gli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, non rappresentano forme di sottomissione, ma strumenti di crescita, esercizi morali, vie di verticalità. Allo stesso modo, Sloterdijk riconosce nella spiritualità monastica un modello storico di “antropotecnica”, ovvero di allenamento dell’umano, di pratica etica volta alla trasformazione del sé. Anche Giorgio Agamben, nel suo progetto Homo sacer e in particolare in Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita (2011) guarda all’esperienza religiosa come a uno spazio di automiglioramento, individuando nella vita monastica francescana un paradigma etico-politico alternativo: una “forma-di-vita”, ossia una condizione in cui vita e regola coincidono, dove ogni gesto esprime integralmente l’essere senza dipendere da norme esterne. Il bene morale, allora, non nasce da un codice, ma dalla coerenza indivisa di un’esistenza che si sottrae alla logica del possesso e vive sine proprio, nella povertà volontaria. Questa spiritualità, lungi dall’essere semplice rinuncia o mortificazione, diventa un modello di vita consapevole, libera, comunitaria, fondata su un uso del mondo senza appropriazione e su un’armonia quotidiana tra etica e gesto. Un’idea di bene che non si impone dall’alto, ma si incarna in una pratica vissuta.
In maniera ancora più decisa, occorre interrogarsi criticamente sul presupposto stesso di un soggetto radicalmente autonomo, capace di autodeterminarsi in assenza di vincoli morali o di codici etici imposti. Questa libertà assoluta, infatti, rischia di rivelarsi una costruzione fittizia: il soggetto sganciato da ogni morale non è necessariamente un soggetto libero, ma spesso è esposto a condizionamenti sociali, culturali ed economici ancora più pervasivi e subdoli, proprio perché non facilmente riconoscibili, quando non del tutto invisibili. Le scelte che l’individuo compie, pur essendo formalmente autonome, possono riflettere inconsapevolmente i trend topic del momento, le gerarchie simboliche dominanti, le strategie del consumo, i modelli egemoni di desiderio e di successo.
La morale cristiana parlava di “coscienza retta”, per indicare una condizione di equilibrio tra libertà, responsabilità, autonomia e consapevolezza dei propri atti. Ma quale libertà rimane a una scelta formalmente autonoma, quando in realtà è solo una forma interiorizzata di modelli morali che riproducono schemi e strutture di potere (economico, sociale, culturale)? Emblematico, in questo senso, è quanto accaduto nell’ultima puntata del reality Money Road: ogni concorrente, secondo un ordine di chiamata in cui ognuno sceglieva chi sarebbe venuto dopo, poteva decidere se ritirare la propria quota del montepremi finale oppure, in alternativa, trattenere il doppio dell’importo, lasciando però inevitabilmente qualcun altro senza nulla. Un ordine che, lungi dall’essere neutro, rifletteva i rapporti di forza maturati all’interno del gruppo, a svantaggio di coloro che erano rimasti ai margini, esclusi dalle dinamiche di alleanza e influenza. È stata senza dubbio una scelta libera e consapevole, ma quanto è stata responsabile? E soprattutto: i criteri che l’hanno determinata sono davvero più giusti di quelli proposti da codici etici condivisi? La morale oggi non si presenta più, almeno in apparenza, come un codice esterno imposto dall’alto, ma come un sistema interiorizzato, normalizzato, silenziosamente radicato nella soggettività, che agisce dal di dentro e conforma le scelte senza costringerle apertamente. Ma ciò non la rende più giusta: la rende, semmai, più arbitraria, perché dettata dalle condizioni di forza iniziali, sociali, economiche, culturali, che ciascuno eredita e che raramente mette in discussione. È dunque sempre più urgente distinguere tra autonomia reale e autonomia simulata, tra libertà critica e semplice adesione inconsapevole ai modelli dominanti del presente.
Ricomincio da… te
Di fronte all’impasse del soggetto formalmente libero, ma di fatto esposto a strutture di influenza sottili e pervasive, non resta che spostare l’asse della questione morale. Forse la morale non nasce da un’auto-normazione della coscienza, né dalla coerenza con un imperativo astratto, né da un calcolo tra beni in gioco, ma da qualcosa di più originario e destabilizzante: l’incontro con l’altro. La domanda allora non è più: “Perché non posso semplicemente agire secondo la mia volontà?”, ma: “Come posso credere che la mia scelta sia davvero mia, quando l’altro la abita già in anticipo?”. In questa prospettiva si colloca il pensiero di Martin Buber, secondo il quale alla radice dell’esperienza umana c’è la relazione che, però, può assumere due forme: quella oggettivante dell’Io-Esso, in cui l’altro è ridotto a funzione, strumento, mezzo; e quella personale dell’Io-Tu, in cui l’altro non è riducibile a categoria, ma è incontrato nella sua totalità irripetibile. Il bene, per Buber, non si fonda su un codice, ma sgorga nello spazio relazionale, in quell’interstizio (Zwischen) che si apre ogni volta che ci si rivolge a qualcuno non per calcolo, ma per presenza autentica. In questo senso, ogni scelta etica non può essere valutata come pretende il claim di Money Road col bilancino delle conseguenze, ma in base al grado di verità del legame che costruisce o che spezza. Un elemento che è emerso anche nelle dinamiche del programma: alcune delle decisioni più controverse (chi ha ceduto alla tentazione, chi ha trattenuto una quota, chi ha scelto l’ordine dei turni) sono state compiute non in nome di principi astratti, ma in virtù delle relazioni, delle alleanze, della fiducia o sfiducia sperimentata. Anzi, proprio lì dove il meccanismo del gioco prevedeva decisioni impersonali, è emersa inesorabilmente la questione personale: di fronte al bancomat con cui si doveva prelevare la propria parte del montepremi, ogni concorrente non ha semplicemente scelto una cifra in denaro. In una dinamica in cui si è stati scelti da qualcuno, ogni concorrente ha a sua volta scelto per qualcuno. E questa scelta ha rivelato innanzitutto la “cifra” morale del soggetto. Ogni tentazione, ogni scelta, ogni libertà esercitata, porta con sé la traccia di una presenza altra e, con essa, una responsabilità.
Questa prospettiva sarà radicalizzata da Emmanuel Levinas secondo il quale prima ancora di pensare e agire, siamo interpellati. Non scegliamo di essere responsabili: lo siamo già. Infatti, per Levinas, ogni volto umano nella sua concretezza, fragilità e irriducibilità, è un evento etico che ci vincola: «Tu non ucciderai». Non si tratta, però, di un comando che si apprende, ma di un’evidenza imperativa che si impone in un rapporto faccia a faccia. Per questo motivo, non c’è bisogno di una dottrina morale per riconoscere l’ingiustizia: basta guardare negli occhi chi l’ha subita. Una verità messa in scena prepotentemente proprio a Money Road: in più occasioni, alcuni concorrenti hanno confessato il disagio per aver scelto “per sé” solo dopo aver incrociato lo sguardo degli altri. Come quando hanno accettato un assegno e poi mentito al gruppo: nessuno li ha accusati, eppure si sono sentiti interpellati lo stesso. Il volto degli altri era diventato la memoria scomoda di una responsabilità non onorata. Questo ci dice che è facile giustificare una scelta davanti alle telecamere, dietro uno schermo, ma difficilmente si sfugge all’appello silenzioso dello sguardo dell’altro. L’etica, allora, non è un sistema di regole, né un sottile equilibrio di interessi: è una fessura, una ferita che si apre grazie allo sguardo dell’altro e che diventa appello, domanda, convocazione, alla quale non si può restare indifferenti. C’è, in tutto questo, un’asimmetria radicale che supera i concetti di reciprocità o parità (su questo punto si è consumato uno strappo tra Levinas e Buber): io sono responsabile dell’altro, anche se lui non lo è di me. L’etica è, in questo senso, scandalosa: non funziona secondo logiche distributive, ma secondo eccedenza e gratuità.
Questo elemento relazionale ricalibra l’intera questione morale. Il problema non è più “quanto sono libero di scegliere per me” ma: “chi sto ignorando mentre scelgo?”. Il volto dell’altro, che sia quello dell’ultimo concorrente rimasto senza nulla, o di chi è stato escluso dalle dinamiche del gruppo, interrompe il racconto narcisistico dell’autonomia e chiede un altro inizio. Emblematica, in questo senso, è stata la conclusione del programma: il pulmino con i concorrenti è partito lasciando a terra proprio gli ultimi due rimasti senza montepremi. Un’immagine potente, quasi brutale, iconica: coloro che hanno ritirato il montepremi, specialmente quanti hanno ritirato il doppio, come avrebbero potuto sostenere lo sguardo di quei compagni con cui avevano condiviso dodici giorni di fatica e che per l’egoismo di due sono rimasti senza nulla? L’etica inizia precisamente da lì, dallo sguardo che mi interpella. Forse è qui che si può davvero ricominciare: non dalla volontà di potenza, né dalla trasparenza della ragione, ma da un Tu che ci guarda e ci chiama, ancora prima che sappiamo cosa rispondere.
In cammino
Questa dimensione relazionale offre inoltre un gancio per comprendere come la Bibbia affronti con sorprendente realismo la questione morale. La Scrittura, infatti, è un caleidoscopio di esperienze, narrazioni e teologie a volte convergenti, altre volte addirittura in tensione tra loro: è dunque impossibile ridurla a un messaggio unitario e, ancora meno, costruirne un’etica sistematica. Tuttavia, le narrazioni che ne costituiscono l’ossatura rappresentano non solo un patrimonio culturale dell’umanità, ma anche un laboratorio antropologico e morale ancora capace di interpellarci. A partire dal bellissimo documento della Pontificia Commissione biblica, Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano (2008), mi permetto allora di mettere in evidenza, tra le tante, tre caratteristiche del discorso etico biblico.
In primo luogo, nella Bibbia, la questione morale non è un’imposizione esterna, ma una risposta alla libertà ricevuta. È da questa prospettiva che va letto, ad esempio, il Decalogo. Al di là delle questioni esegetiche, le dieci parole incise nella pietra non traggono la loro forza in virtù della costrizione normativa. Non si spiegherebbe altrimenti come sia possibile “comandare” il desiderio. Piuttosto, si configura come un manifesto identitario, che chiama Israele a ridefinirsi a partire da una relazione: con Dio e con l’altro. Questa relazione si articola in due movimenti complementari: nei comandamenti positivi, come celebrazione della gratuità, perché tutto è dono di Dio; in quelli negativi, come condanna dell’egoismo, dell’autoreferenzialità, dell’usurpazione. Ma tale condanna non nasce in punta di diritto, bensì come memoria di una liberazione: se Dio ha liberato il suo popolo, nessuno può con il proprio comportamento e le proprie azioni riprodurre logiche che lo rendano nuovamente schiavo. In questa prospettiva, i concetti morali di bene, giusto, giustizia non si riducono a valori astratti, ma si traducono in concrete pratiche di cura verso l’altro, soprattutto verso le categorie vulnerabili: lo straniero, la vedova, l’orfano, il povero. L’agire morale, allora, è innanzitutto qualcosa di relativo, non nel senso di individualistico o soggettivo, ma nel senso più profondo di orientato all’altro, in relazione a lui. È nella capacità di non riprodurre le logiche della sopraffazione e della schiavitù da cui Israele è stato liberato che si misura la giustizia.
Questa stessa relazionalità è la cifra dell’agire di Gesù, evidente nei suoi incontri con i peccatori e, soprattutto, nella sua scandalosa prassi conviviale. In questi incontri, lo spazio salvifico-relazionale non solo anticipa ogni possibile richiesta di conversione, ma spesso la sospende (la pericope dell’adultera in Gv 8,1-11), rendendosi condizione stessa di possibilità del cambiamento. Un altro esempio eclatante è stato messo in evidenza da D. Abignente (Conversione morale nella fede, 2000): quando Gesù si autoinvita a casa di Zaccheo, rompe il cordone di indifferenza e di esclusione a cui il suo status di capo dei pubblicani lo aveva condannato. E sarà proprio Zaccheo, in autonomia, a confessare la propria colpa e a esprimere un desiderio di conversione non facendo riferimento alla Legge mosaica o alla normativa rabbinica, bensì alla ben più gravosa legge del quadruplo prevista dal diritto romano in caso di usura (F. Vallocchia, Rassegna bibliografica sulle usurae, 2016). Il bene non nasce dall’adesione a una norma, che evidentemente Zaccheo già conosceva e non rispettava, ma si manifesta nello spazio dell’incontro che diventa paradossalmente più vincolante di qualsiasi codice perché trasforma, rende responsabili e apre alla giustizia.
La seconda caratteristica riguarda l’itineranza. I grandi racconti biblici sono racconti di cammino: l’Esodo, il ritorno dall’esilio, le peregrinazioni dei patriarchi, ma anche gli insegnamenti itineranti di Gesù, il progresso della parola nel libro degli Atti degli Apostoli. La morale biblica non è un principio rigido da applicare, ma un cammino da interpretare. È una tensione incarnata nella storia, che si confronta con stanchezze, imprevisti, svolte e che chiede non adesione formale a dispositivi eteronomi, ma un cammino di maturazione e di assunzione di responsabilità. Questo comporta una difficoltà maggiore, perché non si contenta di una mera adesione formale a regole universali, ma impegna ogni uomo a trovarne applicazione nella situazione concreta e nel rispetto delle persone che gli sono accanto. Perfino nei libri sapienziali (Proverbi, Siracide, Sapienza, Qoèlet, Giobbe…), che sembrano offrire una morale più universale, esperienziale e pedagogica, la questione etica non è mai riducibile a un’adesione a leggi imposte dall’esterno. La sapienza, in questi testi, è l’arte di vivere bene davanti a Dio e agli uomini: un’arte che nasce dall’osservazione del mondo, dalla riflessione sull’esperienza, dalla capacità di discernere il senso profondo delle cose. La “legge morale” non è codificata in norme rigide, ma è iscritta nella realtà stessa e nella coscienza dell’uomo. Il sapiente è colui che teme Dio, riconoscendolo come origine del senso, e si comporta con giustizia, rettitudine, sobrietà, umiltà, prudenza. Per questo motivo, i testi sapienziali valorizzano le virtù familiari e sociali, il rispetto per i poveri e per gli anziani, l’onestà nei rapporti economici, la responsabilità personale. Non si tratta di un’etica idealizzata o astratta, ma radicata nella concretezza della vita, nei legami, nelle scelte quotidiane, nel senso del limite. Anche in questo caso, il bene non si impone con il mero comandamento, ma si esprime nell’osservazione, nell’ascolto, nel silenzio, nel cammino verso la sapienza.
Infine, l’etica biblica è, inevitabilmente, una morale spirituale. Rimandando a una dimensione altra, non si riduce a un semplice codice di comportamenti da adottare o evitare, né a un elenco di virtù da coltivare e vizi da combattere per garantire l’ordine sociale o il benessere individuale. Si colloca in un orizzonte spirituale profondo, in cui l’accoglienza del dono gratuito di Dio precede e orienta la risposta dell’uomo. Non si parte dal dovere, ma dalla Grazia. Ed è proprio questa gratuità che sottrae l’uomo all’autosufficienza, genera inquietudine, movimento, responsabilità e dischiude gli orizzonti verso l’altro, in particolare verso i poveri, vicini e lontani. Questo aiuta, da un lato, a superare il legalismo, il moralismo e la tentazione casistica; dall’altro, supera il piano meramente prescrittivo per configurarsi come un’etica dinamica che produce cammini, interroga lo status quo, chiama alla conversione, chiama cioè a un cambiamento reale, concreto, fatto di attenzione verso l’altro, di difesa della dignità umana, di ascolto e di impegno per la costruzione di una comunità più giusta.
Conclusione: l’altro come limite e inizio
Tutto ciò che abbiamo detto finora permette di proporre una prima risposta al quesito sollevato da Money Road e dalla sua turbolenta finale: esiste un comportamento corretto oppure, nelle azioni, non c’è giudizio ma solo scelte e conseguenze? La risposta è complessa. Se per giudizio si intende l’applicazione automatica di una morale codificata e universale, allora no: non esiste un solo modo giusto di agire. Ma ciò non significa che tutte le scelte si equivalgano o che non ci siano azioni moralmente significative. L’etica non nasce solo dall’obbedienza a un codice eteronomo, ma dall’incontro con l’altro, che diventa limite e, al tempo stesso, inizio di ogni azione davvero libera. L’altro è sempre presente nelle nostre scelte. Anche quando ci illudiamo di compiere azioni che riguardano esclusivamente noi stessi, le conseguenze toccano (e talvolta invadono) l’altro. Pensiamo al consumo responsabile, allo sfruttamento delle risorse, ai rifiuti che lasciamo dopo una festa, a uno scontrino non emesso o a una tassa evasa. Nei giorni della maturità, molti hanno stigmatizzato l’eccesso di festeggiamenti dei neo-maturati e delle loro famiglie. Ma la questione è un’altra: si può festeggiare, senza però che questo si trasformi automaticamente in un degrado ambientale e sociale che impatta la vita degli altri. Non è questione, quindi, di giudizio, ma di essere inevitabilmente in relazione. Uno dei principi di Money Road ricorda quanto affermato da Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’: ogni scelta personale ha un costo collettivo. Contrariamente alla dinamica del programma, però, questo costo non è pagato uniformemente, ma ricade più spesso sui più poveri, sui più fragili, su chi non ha voce per difendersi. È certo che “Dio fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”, ma gli effetti dell’ingiustizia non sono equamente distribuiti. L’inquinamento, i roghi tossici, la crisi climatica, il disinteresse per il bene comune ricadono soprattutto su chi non ha mezzi per reagire o tutelarsi.
A partire da questa condizione complessa, Umberto Galimberti ha parlato in un suo libro dell’etica del viandante (2023). Si tratta di un’etica senza dogmi e senza meta, propria del viandante, di colui, cioè, che si muove come un nomade attraverso la complessità del reale, accettando la contingenza e orientandosi di volta in volta in base alle situazioni che incontra. È un’etica fragile ma responsabile, inquieta ma lucida, aperta ma che non può mai ridursi all’indifferenza. Questa prospettiva, tuttavia, da sola non basta. Mi permetto di completarla facendo riferimento a una delle parabole più celebri del Vangelo, spesso evocata anche da Papa Francesco: quella del buon samaritano. È una parabola che siamo soliti leggere dal punto di vista del samaritano, come se l’etica fosse sempre il problema di chi può o deve aiutare. Ma la vera svolta avviene se ci mettiamo dalla parte dell’uomo a terra. Di quest’uomo non sappiamo nulla: il nome, le idee politiche e religiose, la meta verso cui era diretto. Sappiamo solo che sta lì, ferito a morte. Che cosa sarebbe stato di lui se l’altro avesse tirato dritto, come avevano fatto il sacerdote e il levita? È questa posizione di fragilità che determina un nuovo orizzonte etico: la domanda da cui scaturisce il racconto della parabola (chi è il mio prossimo) nella vita, nella carne e nella sofferenza dell’uomo mezzo morto smette di essere un interrogativo ozioso per diventare urgenza: tutti sono il mio prossimo, purché mi aiutino e non mi lascino morire. Perché si devono fermare e prendersi cura di me? Non c’è nessun obbligo, ma se non si fermano io muoio. È a partire da questa condizione di fragilità che occorre ricalibrare lo sguardo sulle scelte etiche e morali: perché comportarsi bene? Perché non vorrei mai essere vittima di un’ingiustizia o dell’indifferenza. È interessante notare come questa centralità della fragilità non sia esclusiva della tradizione religiosa: anche filosofi contemporanei come J. Butler (Vite precarie, 2013; A chi spetta una buona vita?, 2012) e J. Derrida (Addio a Emmanuel Levinas, 1998; Autoimmunità, suicidi reali e simbolici, 2006) hanno proposto un’etica che muova proprio dalla vulnerabilità dell’altro, dalla responsabilità che nasce non dal potere, ma dalla vulnerabilità universale e dalla precarietà dell’esistenza umana condivisa e diventa non-violenza, ospitalità radicale e capacità di fare l’impossibile (o almeno di provarci). Nel contesto di Money Road, allora, non è importante stabilire se chi ha preso il doppio del montepremi abbia fatto bene o male. Il punto è un altro, ben più radicale: come si sarebbero sentiti se a rimanere senza nulla fossero stati loro? L’etica comincia precisamente qui. Non dalla legge, non dal calcolo, ma dalla compassione concreta per chi è ai margini. Da quell’altro che, anche se non dice nulla, mette in discussione le mie certezze.
